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Diceva un mistico carnico : “Ogni progresso spirituale deve essere inteso come espressione di grado superiore di amore e non semplicemente come progresso del nostro comportamento morale, il quale può avere origine da un motivo gratificante e condizionarsi e terminare in esso” (P. Albino Candido, Diario di un pellegrino Carnico, p.218)

Gesù è venuto a perfezionare la legge. Il suo scopo è stato quello di farci fare un salto di qualità del nostro essere.
L’Antico Testamento ci ha donato la Legge e i profeti. Chi vuole conoscere Dio deve seguire quella strada, obbedire a quei comandamenti. Non uccidere, non fornicare, non rubare, non dire falsa testimonianza…
E’ un primo stadio, ma non è ancora tutto. Il salto qualitativo è l’amore che perfeziona e supera la legge.

Chi si ferma al primo stadio è ancora imperfetto. E’ importante seguire le norme morali racchiuse nei Dieci Comandamenti, ma il rischio è quello di sentirci soddisfatti perché non uccidiamo, non rubiamo, non diciamo falsa testimonianza, non desideriamo la donna d’altri… lo stesso errore dei farisei al tempo di Gesù! Sentirsi inconsciamente giusti, osservanti delle norme morali e bearsi del proprio progresso morale, specchiarsi sui propri risultati etici.
In questo modo la nostra evoluzione rischia di arrestarsi in una sorta di narcisismo morale: “sono a posto perché ho resistito a quella tentazione, non ho rubato, non sono annegato nella lussuria…”

Forse intuiamo perché la nostra vita è piena di insidie e tentazioni : esse servono a rompere il cerchio del nostro narcisismo e dell’autosoddisfazione e permettere quello slancio vitale che ci può catalputare nella logica dell’amore. Maria Maddalena ha preso coscienza dei propri errori, ha riconosciuto chi l’ha liberata e ha incanalato la sua energia vitale su Colui che è l’Amore.
Gesù risorto è apparso prima a lei. Non è un caso.
E’ un preciso messaggio della Rivelazione : Dio attende da noi questo salto qualitativo: dall’osservanza della legge all’operosità dell’amore.

E’ meglio, forse, una vita piena di fragilità e di cadute morali reiterate di cui abbiamo coscienza per poter rimediare, che una vita farisaicamente virtuosa, ma fine a se stessa.

Nel primo caso la coscienza della propria fragilità ci spinge ad aver fiducia solo in Dio che perdona e il desiderio di riparare e contraccambiare il suo amore ci conduce inconsapevolmente ed umilmente alla progressiva divinizzazione.

Nel secondo caso la nostra vita interiore rischia di ridursi ad una cosmesi spirituale che ci fa sentire “buoni” per gratificarci.

E’ un vero progresso il sentirci perfetti davanti a Dio? O è preferibile la povertà spirituale delle beatitudini, per cui ci rendiamo consapevoli che tutto ci è stato donato ed ogni bontà che abbiamo proviene solo da Lui?

Pier Angelo Piai