dal Messaggero Veneto del 13/05/2002

Il pordenonese Francesco Stoppa analizza il rapporto tra shoah e psicanalisi nell’“offerta al dio oscuro”
Il vero rischio è non credersi più in pericolo


Non è facile oggi scrivere un libro sull’olocausto, ancora meno legare l’evento più tragico del secolo appena trascorso con una limpida riflessione psicoanalitica. Non è facile perché all’inadeguatezza della parola quando si voglia dare testimonianza di quell’evento, si aggiunge il sospetto che il verbo psicoanalitico voglia appropriarsene per rinchiudere nelle profondità inquietanti dell’inconscio la sua spiegazione ultima, a scapito di più complesse interpretazioni storiche e sociali.

Il pordenonese Francesco Stoppa in L’offerta al dio oscuro. Il secolo dell’olocausto e la psicoanalisi (Franco Angeli editore, 208 pagine, 17 euro), da poche settimane in libreria, riesce a sfuggire a questa trappola. Il suo libro denso e originale, talvolta troppo ricco di spunti di riflessione ma sempre rigoroso nella scansione e nella successione logica delle argomentazioni, ingaggia un corpo a corpo con il linguaggio della psicoanalisi: dal suo interno – Stoppa lavora come psicoanalista a Pordenone – per venirne fuori e confrontarsi con altri saperi.
Non c’è, insomma, la pretesa di usare il divano per spiegare lo sterminio.

La nostra soggettività straziata dal lager viene interrogata non già all’interno di una dimensione intima – illudendosi di rintracciare in una profondità inesplorata dell’inconscio il peso della sua responsabilità morale – piuttosto nell’evidenza della natura sociale del suo legame con l’Altro e della trasformazione di questo legame nella modernità.

Perché è proprio la soglia della modernità che rivela l’esito tragico di un progetto di appiattimento della soggettività e di distruzione del legame sociale, che nel delirio letterario del Marchese di Sade riconosce una sua eloquente anticipazione. Il primo dei tre assi su cui poggia la riflessione di Stoppa è appunto quello clinico psicoanalitico sul tema della perversione: attraverso la metafora della città del male fantasticata da Sade, luogo ove governa la legge di un godimento senza legge, si può cogliere come si rovescia la dialettica del riconoscimento alla base del desiderio e del legame umano in un abuso di corpi senza identità. Il perverso rifiuta il vuoto che abita il cuore del soggetto e tenta di riempirlo con l’esercizio di un dolore illimitato da infliggere alla vittima, quale segno di potenza e di controllo sulla vita che disconosce il confine ultimo della morte.

È l’utopia di un’umanità che pretende – nel progetto di distruzione dell’Altro – di affrancarsi dalle sue mancanze strutturali e dalle sue leggi simboliche nell’illusione di raggiungere una natura rigenerata ed eternamente liberata dei suoi limiti.
Illusione che rappresenta per Stoppa la vera cifra caratterizzante della nostra quotidianità: il discorso si sposta su un secondo asse, di matrice politica, che interroga la modernità a partire dalla questione del soggetto. Come si può oggi parlare ancora di soggetto in un mondo globalizzato che riduce la persona a utente che consuma, che ne soffoca il desiderio con un’offerta illimitata di beni e di merci, riducendola a puro bisogno indotto? La desoggettivazione della modernità è la domanda annichilita attraverso l’estensione onnipotente della risposta – risposta a tutte le richieste possibili – nel tentativo di colmare la mancanza strutturale dell’uomo. È l’annegamento della differenza nelle acque gelide dell’omologazione.

Tra la clinica della perversione e la critica alla modernità si colloca il terzo asse, ossia la dimensione storica del secolo appena trascorso: la tragica esperienza del campo di sterminio nazista lega come una cerniera gli altri due piani della riflessione di Stoppa. Il lager ha presentificato il delirio di “una città dell’orrore” – orrore senza fondo e senza ragione –, consegnata al capriccio dei carnefici ma sempre all’interno di una logica rigorosa di eliminazione radicale della differenza. Che cosa l’aguzzino giudica intollerabile nella vittima che ha davanti? Che cosa annienta con così feroce determinazione? Forse l’alterità che scorge nell’ebreo, il suo essere errante e senza patria, è ciò che mette in crisi la granitica convinzione di un’identità senza macchia e svela il segreto di un’inconfessabile proiezione: distruggere fuori di sé la differenza che non si accetta dentro di sé.

Per questo l’imperativo di trasformazione del mondo si realizza per il tramite di un’assurda purificazione del soggetto. Bisogna far passare l’individuo attraverso il dolore, bisogna insistere sul punto limite della morte, lì dove si annida il segreto della vita e il sogno di un uomo rigenerato e senza mancanze. Fascino atroce dell’impossibile, violenza estrema per ciò che non riusciremo mai ad essere e che tuttavia dobbiamo ad ogni costo diventare.
Il progetto del lager è l’offerta a un dio oscuro, dice Stoppa riprendendo Lacan, «qualcosa cui pochi soggetti possono non soccombere, in una mostruosa cattura»: l’esperienza del proprio limite, l’angoscia legata alla finitezza, il rispetto di una zona sacra di non-sapere, rappresentano forse oggi gli unici luoghi ove poggiare «uno sguardo coraggioso».

Girare gli occhi, sentirsi fuori e al riparo da una vicenda che ci appartiene non solo nella memoria storica ma nella struttura stessa dell’essere, equivale a non vedere il nuovo olocausto in cui tutti rischiamo di precipitare: nell’epoca della crisi della funzione paterna, nel mondo che si globalizza in un dispendio di beni infinitamente disponibili, il destino di desoggettivazione che ci attende non sembra meno inquietante di quello inflitto alle vittime dei campi.

Abbagliati dalla sensazione di poter padroneggiare in modo assoluto la nostra condizione, costruiamo oscuramente un tempio segreto, nell’adorazione di un godimento privato, merce o sostanza o feticcio che sia: dio terrifico e insaziabile, da placare con un sacrificio ininterrotto, immolando lo scarto della propria singolarità e la prudenza di un desiderio possibile.
Mario Colucci
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