giorgioc pictureGiorgio Codarini, psicanalista di più che decennale esperienza, aiuta ad elaborare il disagio “individuale” nella sfera delle nevrosi, della depressione, degli attacchi di panico, anoressia – bulimia, dei disturbi psicosomatici.
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Proponiamo un articolo scritto dallo psicanalista Giorgio Codarini (Udine), esperto in clinica della parola

La psicanalisi oggi.

La nozione di psicanalisi oggi, è ben lontana dagli occultismi di moda, dalle faccende di psicoterapia, dalle facili mediazioni e dai facili rimedi dei quali è piena la nostra epoca.
Anche la nevrosi* è un tentativo di migliorarsi, quindi un modo di fare psicoterapia,e di escogitare sempre nuovi rimedi.

Non c’è farmaco (farmakon”)* né veleno, né antidoto, né filtro né sostanza alcuna che possa togliere di mezzo il disagio, né il cosiddetto “male oscuro”*.
Si tratta allora, di una psicanalisi che non si attiene ad una categoria sociale e professionale; essa va al di là dei localismi e dei provincialismi proponendo come ai tempi di Freud una istanza internazionale.

Il mito che va da Babele alla Pentecoste* annuncia un’idea di internazionalità attraverso una lingua che parta dalla sua specificità e particolarità “idiomatica”, per giungere nella comunicazione specifica dove ciascuno si trova ad intendere a suo modo, attraverso una traduzione e una trasposizione.

La psicanalisi procede da un lavoro scientifico non avendo altra garanzia che quella dell’ “oggetto della Parola”* .

Oggetto che senza posa si sottrae alla presa, per questo la ricerca non può avere fine. Essa è da intendersi ancora come esperienza originaria di parola dove si situano la teoria e la scrittura dell’esperienza senza rimedio e senza mediazioni.

La psicanalisi non è una disciplina e non esiste in quanto tale, ma sta nell’atto, nel contingente (non è un sapere che ha debiti con l’epistemologia.

a sua ricerca ruota attorno ad un punto ed approda al caso clinico lungo un intervento che tiene conto dell’Oggetto* e del Tempo*; cioé di una provocazione e di un contingente dove non c’è mai l’ultima parola.

Il significante Psicanalisi, oggi si può intendere anche nel suo etimo : ana-lusis (gr. ana luo = senza soluzione, in quanto il suo oggetto è assoluto : sciolto, non legato a qualcosa).

Freud nel saggio : “Analisi terminata ed interminabile” (1937) si chiede “…è possibile liquidare mediante la terapia analitica, permanentemente e definitivamente un conflitto delle pulsioni con l’Io o una richiesta pulsionale patogena rivolta all’Io?”

“Ma questa liquidazione – afferma lui – sarebbe impossibile e non sarebbe affatto auspicabile”, e poi continua: ” l’imbrigliamento della pulsione significherebbe che, la pulsione perfettamente inglobata nell’armonia dell’Io, diventerebbe accessibile a tutti gli influssi che promanano dalle tendenze presenti nell’Io e non segnerebbe più un proprio e autonomo cammino per raggiungere il soddisfacimento.

Alla domanda per quale strada e con quali mezzi ciò accade non è facile rispondere.”

E continua ancora Freud, citando il Faust di Goethe : “…non c’è che la strega. Ebbene, questa strega è la meta-psicologia. Non si può avanzare di un solo passo se non speculando e teorizzando, stavo per dire fantasticando in termini meta-psicologici”.”

Ciascun tentativo di imbrigliare la pulsione da parte dell’Io, di un “Io” forte, è destinata al fallimento, alla caduta, alla rimozione in quanto si tratta della presenza dell’inconscio.*

L’Io non è padrone a casa propria, perché corre tra la funzione di straniante* (unheimliche) (l’identità in quanto tale non esiste) e l’ideale dell’Io. *

Non c’è soggetto, allora, del potere, del dovere, del volere né del sapere (le strade dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni, quelle del paradiso di cattive intenzioni…)

L’atto di parola procede secondo un funzionamento inconscio, ossia l’idioma.
Parlare non è né una facoltà, né una competenza che comporti una performance, ma procede secondo la funzione di rimozione, di resistenza e la funzione vuota.*

L’incoscio non è localizzabile, non è una parte del cervello, non è un luogo tenebroso e negativo che presuppone di essere illuminato, esorcizzato, reso cosciente, conosciuto, svelabile, da cui potrebbe dipendere la guarigione.

Questo è il cosiddetto “fantasma nevrotico”, una psicoterapia.
Ma non basta l’analisi, occorre la clinica.

Essa interviene quando le cose si dicono e si fanno. Questa è una clinica senza pazienti e senza incapaci. Essa porta a compimento l’itinerario analitico quando le cose giungono a scriversi, ossia giungono ad un racconto e ad un ascolto, dove le cose terminano per divenire interminabili.

Non è l’analisi ad essere interminabile, ma l’impresa clinica. Si tratta, allora, di una clinica senza malati dove non c’è nessuna degradazione psico-fisica.

L’essere umano non è dannato per sua natura da un destino congenito, ma il male, o la cosidetta malattia costituiscono una fase della sua avventura esistenziale.

La clinica, nel discorso occidentale, venne a significare, a partire dagli albori della modernità, sempre più un luogo di internamento.

Come afferma M. Foucault in alcune opere più significative come : “La nascita della clinica” e “Storia della follia nell’età classica”, i vecchi lebbrosari, che alla fine del medioevo cominciano a svuotarsi, vengono progressivamente riempiti di pazzi e di folli e si trasformano nelle prime rudimentali cliniche psichiatriche.

Clinica , termine dell’antico greco, nemmeno in Platone stava a significare un luogo; “Klinikos” sta ad indicare qualcosa che si fa presso il letto, da “kliné” = letto, o tutto ciò che serve per appoggiarsi, adagiarsi e distendersi. L’immagine sembrerebbe quella del letto, ma il verbo a cui si riferiscono questo aggettivo e questo sostantivo è “klinein” = inclinare e piegare.

Originariamente si tratterrebbe dell’atto dell’inclinare, del piegare, del flettere, ovvero della flessione che sta nella parola.
La clinica diventa, allora, la tessitura del discorso della conversazione analitica dove la parola si combina nella struttura del caso clinico.

Il caso clinico è un “caso di parola” che procede da una elaborazione del disagio e del sintomo, i quali non vanno intesi come una malattia o una psicopatologia, ma come una possibilità di ricerca, ossia un percorso verso un’acquisizione che conduce ad una trasformazione (metanoia) integrale.

Il disagio è, quindi, un’indicatore che non va estirpato né narcotizzato, ma valorizzato in quanto la sua presenza è uno stimolo per la ricerca di qualcosa di totalmente nuovo e inedito indotto dall’oggetto del desiderio inconscio.

Giorgio Codarini (Udine)
psicanalista

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