da Famiglia cristiana dell’1/09/02
di D.A.
SINGOLARE PROPOSTA DI DUE CONIUGI, CHE CANTANO�
“FUORI DEL CORO”
MATRIMONIO E CELIBATO DEI PRETI
Prima di dire che i preti non devono sposarsi, bisogna affermare che chi si sposa non può fare il prete. Anche il matrimonio – secondo i due coniugi – è incompatibile col sacerdozio.
Caro padre, c’è una questione che spesso ritorna sulle pagine di Famiglia Cristiana, ma che non è stata trattata esaurientemente. Ci riferiamo al celibato dei preti e al suo rapporto con gli sposi e la comunità. Infatti, quando si ipotizza la possibilità che il prete possa sposarsi, si invia anche un messaggio agli sposi. Per cui non possiamo non chiederci come e se il matrimonio cristiano si concili con il ministero sacerdotale. Non tanto per questioni pratiche, quanto piuttosto per il significato proprio di ciascuna vocazione che si è chiamati a incarnare.
Spesso, infatti, il discorso si esaurisce rapidamente dicendo che matrimonio e sacerdozio non sono affatto incompatibili, ma solo tenuti separati dalla tradizione della Chiesa. Che, da un certo periodo in poi, ha optato per questa scelta per ragioni di opportunità. Noi, invece, siamo convinti che matrimonio e sacerdozio incompatibili lo siano veramente. E lo diciamo alla luce di quegli studi che, negli ultimi trentacinque anni, hanno fatto molta luce sul significato e sulla spiritualità del matrimonio.
Non si sfugge, forse, a questa prospettiva storica quando sul celibato dei preti si continua ad attribuire la posizione della Chiesa cattolica a pura tradizione e opportunità? O al fatto che i tempi non sono ancora maturi per un passo così innovativo? Ora, non sarebbe invece il caso di riconoscere nuove motivazioni a una scelta, che è di valore? Il matrimonio cristiano è uno stato di vita che intende testimoniare, al massimo delle possibilità umane e con l’aiuto della Grazia, la fedeltà e l’amore totale e indiviso tra i coniugi. Che è poi segno dell’amore fedele e totale di Dio per l’uomo. E di Gesù per la Chiesa.
Se questo è il cuore della vocazione al matrimonio cristiano, non pensa padre che, almeno per la dimensione della “totalità”, esso sia incompatibile con il sacerdozio? In esso l’uomo mette a disposizione i talenti, l’intelligenza, il tempo e il proprio corpo per testimoniare l’amore universale di Dio per l’umanità attraverso la predicazione e l’amministrazione dei Sacramenti. In particolare dell’Eucaristia e della Riconciliazione, dove è più evidente la consacrazione dell’uomo-sacerdote a un Dio che, tramite lui, raggiunge l’umanità.
Come può una persona consacrarsi contemporaneamente al coniuge e alla comunità? E come può rispondere alle esigenze di due vocazioni che chiedono entrambe totalità? Quando un sacerdote ha trascorso del tempo in confessionale non esce uguale a come ci è entrato: questa è sicuramente una parte di sé che non potrà essere “coniugalizzata”. È per questo che crediamo che il celibato sia una condizione indispensabile per il ministero sacerdotale. E irrinunciabile per la dignità stessa del sacerdozio. E anche del matrimonio.
Comprendiamo la difficoltà – e talvolta il dramma – di sacerdoti che desiderano profondamente rimanere tali, ma che sentono anche forte il bisogno di incrociare la propria esistenza con quella di una donna. A loro vorremmo dire: non confondete il bisogno di relazione con la vocazione matrimoniale. La quale, per essere seguita seriamente, chiede il prezzo dell’abbandono dell’esercizio sacerdotale.
Spesso i nostri sacerdoti sono costretti a fare i burocrati dietro a carte e conti per la gestione della parrocchia. Sono più impiegati e manager che pastori: indaffaratissimi ma profondamente soli. Spesso in attrito con i confratelli, abituati fin dal seminario a bastare a sé stessi, col rischio di ritrovarsi con rapporti aridi anche dove dovrebbe esserci vera fraternità. In condizioni simili, anche la più forte vocazione vacilla sotto il peso di un’esistenza umanamente poco appagante. E la prima “tentazione” a svegliarsi è il bisogno di condividere la propria vita con un’altra persona.
Tutto ciò è comprensibile, ma la soluzione non può essere quella di consentire il matrimonio al sacerdote, quanto piuttosto creare delle relazioni significative che vincano la solitudine. Fin dagli anni del seminario.
Se poi, invece, si rende necessaria la scelta di imboccare la via del matrimonio, si ricorra alla dispensa. Ma non si preferisca mai l’ambiguità e la non chiarezza. Prima di tutto, per il rispetto dovuto al partner, a sé stessi e alla comunità. E poi anche a Dio Padre, che accetta il nostro limite, ma che sempre ci chiede di amare nella verità.
Una coppia di sposi
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Ecco un proposta geniale e stupefacente intorno al problema, sempre dibattuto con passione, del celibato dei preti. Cantando “fuori del coro”, i nostri due sposi non si schierano contro l’obbligo del celibato, ma neppure si impegnano più di tanto a dimostrarne la necessità per chi intende ricevere l’ordine sacro. Lo invocano, invece, con forza dalla sponda opposta: non è il ministero del prete a esigere la rinuncia al matrimonio, ma è la condizione sacramentale degli sposi a esigere la rinuncia al sacerdozio. Prima di dire che i preti non devono sposarsi, bisogna affermare che chi si sposa non può fare il prete. Solo a un lettore superficiale potrà sembrare che sia la stessa cosa.
Il ragionamento è limpido: il sacramento del matrimonio e i carismi dello Spirito che animano la vita degli sposi li coinvolgono in una vocazione totalizzante. La consacrazione a Dio della propria esistenza assume nel matrimonio la sua forma concreta nella completa dedizione di sé al proprio sposo, alla propria sposa, alla propria famiglia. Se gli sposi vogliono vivere all’altezza di questa vocazione e di questa grazia, non possono far determinare la propria esistenza da un’altra vocazione ugualmente totalizzante.
Che il sacramento del matrimonio e la grazia che ne deriva coinvolgano l’uomo e la donna in una dimensione di totalità, nessuno potrebbe dubitare. Fra l’altro, la stessa esperienza della vita comune, al di là della visione di fede, ci dimostra quanto sia distruttiva dell’amore l’incapacità di scegliere fra la dedizione alla famiglia e l’inseguimento di altri ideali che impegnano l’animo nel profondo. Non sono rari i casi in cui non c’è salvezza se non in un taglio radicale: o l’amore sponsale occupa il primo posto nel cuore o è destinato a infrangersi.
L’esclusività dell’amore qui non è frutto di insensate gelosie o di deviazioni possessive, bensì del coinvolgimento delle persone nello strato più profondo del loro essere, per cui lo stesso rapporto con Dio ne resta indelebilmente segnato. Quella degli sposi non è un’amicizia: di amici ne posso avere quanti ne voglio. Non c’è adulterio nella pluralità delle amicizie. C’è adulterio – che è ferita e colpa profonda – contro l’amore sponsale.
E non si commette adulterio solo amando un’altra persona, ma anche amando la propria carriera, la ricerca del successo, il denaro, il proprio sport preferito o qualsiasi altra cosa in misura tale da mettere in secondo piano la persona che si ama.
Sarebbe allora un inaccettabile rivale dell’esclusività dell’amore coniugale anche il ministero pastorale, per la totalità di dedizione che anch’esso esige? Sì e no. Certamente lo sarebbe, qualora non fosse fondato sul previo e libero consenso a una dedizione che, comunque, dovrebbe essere condivisa. In senso assoluto è più difficile dirlo, perché si tratta pur sempre di dedizione all’altro e a Dio, non di una ricerca di sé, del proprio successo e del proprio piacere.
È vero che fare il prete chiede una dedizione assoluta: la Chiesa infatti, nella sua tradizione occidentale, ne ha ricavato l’idea di una così alta opportunità del celibato per i suoi preti da averlo reso obbligatorio. C’è però una differenza da considerare: è che la Chiesa può imporre una simile disciplina ai suoi ministri, perché il ministero dell’ordine sacro ha la sua sola ragion d’essere nel servizio da rendere alla comunità. Il sacramento dell’ordine non è dato al cristiano per il bene di chi lo riceve: essere preti nella Chiesa è solo un servizio da rendere alla comunità. E le norme che lo regolano non sono misurate sulle esigenze della persona (giacché nessuno è obbligato a farsi prete né alcuno ha il diritto di diventarlo), ma su quelle del servizio da rendere. Da qui deriva che la Chiesa possa porre le sue condizioni, come è avvenuto per il celibato, per il divieto della militanza politica, per l’imposizione di un faticoso e lungo curriculum formativo.
Ma la Chiesa non potrebbe, in alcun modo, porre condizioni analoghe per la celebrazione del matrimonio: sposarsi è un diritto naturale della persona umana, che non può essere sottoposto ad altre condizioni che non siano quelle intrinseche al matrimonio stesso, come lo sono la condizione monogamica o l’accettazione della indissolubilità.
Il diritto canonico non potrebbe quindi vietare a chi intende sposarsi di esercitare alcune professioni che, pure, sembrano contraddire la possibilità di un’armoniosa vita familiare. C’è quindi una reale asimmetria fra le due prospettive, nonostante l’analogia fra il carattere di dedizione totale proprio del ministero ordinato e quello che accompagna il sacramento del matrimonio.
Con questo non voglio dire che gli sposi non debbano prendere sul serio, con la massima determinatezza, il problema di alcune incompatibilità fra un certo tipo di aspirazioni, di professioni, di carriere, di interessi e il loro amore sacramentalmente consacrato. Ma sono problemi che trovano la loro soluzione non nella creazione di statuti giuridico-sacramentali, bensì nella ricerca sincera della fedeltà alla propria vocazione.
D.A.