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http://cinetecadelfriuli.org/cdf/cineteca/ultimi_frameset.html
Gli ultimi (1963)
Regia: Vito Pandolfi; soggetto: David Maria Turoldo; sceneggiatura: Vito Pandolfi e David MariaTuroldo;
interpreti: Adelfo Galli (Checo), Lino Turoldo (il padre); Margherita Tonino (la madre), Riedo Puppo (il sacrestano), Vera Pescarolo (la maestra), Elio Ciol (il fotografo), Laura De Cecco (Josette), Vincenzo Jacuzzi (uno dei bambini); direttore della fotografia: Armando Nannuzzi; assistenti operatori: Giovanni Antinori, Massimo Nannuzzi; operatori alla macchina: Giuseppe Ruzzolini, Alvaro Lanzoni; riprese provini a 16mm: Gianni Vitrotti, aiuto-regista: Leo Pescarolo; assistente alla regia: Marcello Ugolini; ispettore di produzione: Carmine de Benedittis; costruzioni e arredamento: Bruno Bartolomeo Vianello, Gino Persello; tecnici del suono: Oscar D’Arcangeli, Oscar Di Santo; recordista: Adolfo Fabrizi; fotografo di scena: Elio Ciol; collaboratore al trattamento: Mario Casamassima; montaggio: Jolanda Benvenuti; assistente al montaggio: Elsa Nardelli; coordinatore musicale: Carlo Rustichelli; sviluppo e stampa: Istituto Nazionale Luce; tecnico: Enzo Verzini; pellicola: Dupont S2 negativo; registrazione suono e mezzi tecnici: Cinecittà; direttore di produzione: Sergio Jacobis; produzione: Le Grazie Film, Udine; località delle riprese: Buia, Coderno (Sedegliano), Craoretto (Prepotto), Glaunicco (Camino al Tagliamento), Passariano (Codroipo), Remanzacco; (interni girati a Coderno di Sedegliano); riprese effettuate nei primi mesi del 1962; distribuzione: Henry Lombroso per Globe International; visto di censura n. 38706 del 17 ottobre 1962; lunghezza originale: 2620 metri (96 minuti); lunghezza copia sottoposta a censura: 2424 metri (88 minuti); lunghezza copia restaurata: 2424 metri (88 minuti); laboratorio di restauro: Studio Cine, Roma (gennaio-febbraio 2002); prima visione pubblica: 31 gennaio 1963 (Cinema Centrale di Udine); incasso: lire 16.000.000; prima visione copia restaurata: 4 marzo 2002 (Teatro Nuovo Giovanni da Udine).
Versione restaurata (2002)
Progetto a cura della Cineteca del Friuli con il Centro Espressioni Cinematografiche di Udine, Cinemazero di Pordenone e la Scuola Nazionale di Cinema – Cineteca Nazionale, Roma.
Hanno collaborato: Cassa di Risparmio di Udine e Pordenone; Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia; Comune di Udine; Associazione David Maria Turoldo, Sedegliano; Forum di Aquileia.
Anteprima: lunedì 4 marzo 2002, Teatro Nuovo Giovanni da Udine, alla presenza di Adelfo Galli, Leo Pescarolo, Vera Montaldo Pescarolo. Sono stati inoltre presentati i seguenti materiali: trailer, provini con gli attori, alcune scene tagliate, estratti dalla copia lavoro (suoni e voci dal set), interviste sul set.
Altre proiezioni:
MILANO: 10 marzo, Spazio Oberdan, ore 21
PORDENONE: 14 marzo, Cinemazero, ore 21
SESTO FIORENTINO: 21 marzo
GEMONA: 26 marzo, Cinema Sociale, ore 20.30.
GORIZIA, 28 marzo, Kinoatelje/Cinema Vittoria, ore 20.45
VENEZIA: 11 aprile, Cinema Giorgione, ore 16.30
CODROIPO: 14 aprile, Teatro Verdi, ore 21
FLAIBANO: 15 aprile, Palestra Comunale, ore 20.30
LESTIZZA:16 aprile, Auditorium Comunale, ore 20.30
RIVIGNANO: 17 aprile, Auditorium Comunale, ore 20.30
PORDENONE: 18 aprile, Cinemazero, ore 20 e 22
DIGNANO: 19 aprile, ore 21
BASILIANO: 22 aprile, luogo da definire, ore 20.30
SAN GIOVANNI VALDARNO (AR): 26 aprile, Valdarno Cinema Fedic, ore 17
BERGAMO: 30 aprile, Auditorium di Piazza Libertà
MILANO: 1 maggio, ore 21, Spazio Oberdan della Cineteca Italiana
UDINE: 7 maggio, ore 20 e 22, Cinema Ferroviario/CEC
UDINE: 9 maggio, Cinema Ferroviario/CEC (proiezione per le scuole), ore 9.45
PORDENONE, 13 maggio, Cinemazero (proiezione per le scuole), ore 9.15
PORDENONE, 14 maggio, Cinemazero (proiezione per le scuole), ore 9.15
PORDENONE, 14 maggio, Cinema Son Bosco, ore 21
COLLEGNO (TO): 28 maggio, Cinema Ferrovia, ore 21
TORINO: 31 maggio, Cinema Massimo del Museo Nazionale del Cinema, ore 21
CODERNO DI SEDEGLIANO: 29 giugno, sul luogo delle riprese, ore 21
MANZANO: a cura del CEC, 12 luglio, ore 21
PONTEBBA: Cinema Italia, 20 luglio, ore 21
CASARSA: a cura di Cinemazero, 22 luglio, ore 21
PORDENONE: Parco Galvani, a cura di Cinemazero, 23 luglio, ore 21
GEMONA: a cura della Cineteca del Friuli, Anfiteatro di via Dante, 2 luglio, ore 21
PRECENICCO: a cura di Artemedia, 31 luglio, ore 21
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NUOVA VITA A GLI ULTIMI
Gli ultimi avrebbe dovuto essere il primo episodio di una trilogia ambientata nel suo Friuli. Era questo l’ambizioso progetto di David Maria Turoldo negli anni Sessanta. Una lunga elegia, non rinunciataria, degli ultimi contadini attaccati alla terra. La stessa terra che nel 1916 gli aveva dato i natali, amata, abbandonata e rimpianta, divenuta oggetto di poesia, ora, a cantarla voleva fosse il cinema.
Amavo profondamente il cinema! Negli anni della guerra a Milano, in mezzo alle macerie, fui io a fondare, con il Cinema Studio, l’iniziativa di un cinema ‘messo a giudizio’ sul modello del Cineforum”, raccontava Padre Turoldo. E ancora, dalle pagine di Famiglia Cristiana, nel 1963 precisava: “Considero il cinema il mezzo più efficace e dignitoso per parlare agli uomini d’oggi. Ho scoperto un’umanità in pericolo della retorica di classe o dell’oblio”. Quell’umanità era la gente della sua Piccola Patria, di cui, dopo anni di forzato esilio, si sentiva portavoce. Gli ultimi nasce sullo sfondo di queste riflessioni.
Nel 1961, di ritorno dal Canada, Turoldo è assegnato al Convento di Santa Maria delle Grazie a Udine. È qui che prende corpo il progetto. Trascinatore di uomini e di mezzi, padre David, con la sua proverbiale grinta, non solo riesce a racimolare la somma necessaria alla realizzazione del film — poco più di sessanta milioni, presi in prestito da amici e da vecchi emigranti friulani all’estero — ma coinvolge in questo progetto una troupe di assoluto rilievo: dal direttore della fotografia Armando Nannuzzi, agli scenografi Bruno Vianello e Gigi Persello; dal curatore delle musiche Carlo Rustichelli, alla montatrice Jolanda Benvenuti ed all’aiuto regista Leo Pescarolo. Ma primo fra tutti Vito Pandolfi, cui affida la regia. Uomo di teatro, intellettuale, studioso dello spettacolo, Pandolfi, di formazione laica, era legato a Turoldo per aver condiviso l’esperienza della Resistenza a Milano.
Ispirato a un racconto breve di padre David intitolato “Io non ero un fanciullo” — uno scritto intimo e personale, dettato e motivato da un vissuto reale, fortemente autobiografico — il film vede coinvolto nella prima fase del trattamento Mario Casamassima, documentarista di origini pugliesi, friulano d’adozione. Successivamente, alla fase della scrittura si affianca lo stesso Pandolfi, che poi firmerà la sceneggiatura assieme a Turoldo.
A cavallo tra il 1961 e il 1962 anche Udine diventa così un centro di produzione cinematografica. Le riprese, durate circa due mesi, sono precedute dai sopralluoghi e dai provini agli attori, tutti reclutati tra la gente del Friuli con l’eccezione di Vera Pescarolo (nella finzione, la maestra), sorella di Leo, e di Adelfo Galli (che interpreta il piccolo Checo). Anute è Margherita Tonino di Osoppo e Zuan è Lino Turoldo, fratello di David, a cui Turoldo, nel doppiaggio, presta la voce; Josette è invece una bambina di Gemona, Laura De Cecco.
La lunga preparazione al film e la fase delle riprese sono documentate dalle splendide immagini scattate da Elio Ciol, il fotografo di scena.
La vicenda raccontata nel film riflette alcuni topoi della poesia di Turoldo: il ricordo del paese natio; la figura della madre; la miseria vissuta con dignità e non rassegnazione. Temi che sono illustrati attraverso la storia di un pastorello, figlio di contadini affittuari nel Friuli degli anni Trenta, che per la sua indigenza viene continuamente deriso dai coetanei. Checo simbolicamente rappresenta il Friuli con la sua umanità dimenticata; un Friuli, terra isolata, povera e depressa che farà della propria miseria non una vergogna ma un valore, una fonte di forza da imporre al resto del mondo.
L’attesissima prima del film si tiene al Cinema Centrale di Udine, gremito di pubblico, il 31 gennaio 1963. Ma dopo il successo di questa storica serata, il Friuli s’infiamma ed ha inizio una serie di accese polemiche che trovano spazio sui giornali locali. C’è chi si sente offeso, chi vede la propria dignità svilita da una rappresentazione reputata misera e denigratoria del Friuli. Turoldo risponde organizzando un pubblico dibattito dove illustra il senso profondo del film. Accanto alle rivendicazioni, vi sono i pareri elogiativi della critica: il film ottiene a livello nazionale recensioni incoraggianti, arricchite dai lusinghieri apprezzamenti di personaggi illustri: Pasolini ne parla in termini di “assoluta severità estetica”, Ungaretti di “schietta e alta poesia” e Zavattini, pur non condividendo il finale, ne ammira “la scarna verità delle immagini”.
Primo esempio di cinema realizzato da professionisti in Friuli, Gli ultimi viene distribuito dalla Globe Film di Henry Lombroso, la stessa casa, specializzata in cinema d’autore, che per prima riuscì a portare nelle sale cinematografiche italiane i film di Dreyer, Tarkowskij e Bergman. Ma il film non ha fortuna.
Dopo la prima udinese, Gli ultimi circola pochissimo in Italia (Milano, Napoli, Roma) e ben presto le poche copie esistenti in pellicola finiscono per deteriorarsi. I tempi non sono maturi per accettare un’opera anomala nel contesto storico e cinematografico dell’Italia degli anni Sessanta. Turoldo deve lottare contro molti pregiudizi: la scarna realtà rappresentata nel film suscita in chi è già inevitabilmente proiettato in una fuga ottimistica e consumistica da miracolo economico, un profondo disagio ed un senso di rifiuto verso qualcosa che appare vecchio e superato.
Tutto questo determina la sorte del film, la sua impossibile visibilità, il suo insuccesso commerciale. Le critiche, le sviste e i fraintendimenti costringono Turoldo ad abbandonare l’idea della trilogia che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto mostrare il futuro di Checo, trasformato da pastorello in emigrante, da povero in Friuli in arricchito all’estero, ma con la voglia di tornare nella sua patria.
Nel 1981 Gli ultimi viene rimesso nel circuito culturale italiano dalla Sampaolo Film in formato 16mm riportando un discreto successo solamente in Friuli; con la chiusura della distribuzione Sampaolo, decisa all’inizio degli anni Novanta, vengono mandate al macero anche queste copie, ad eccezione di quelle “salvate” da Cinemazero e dalla Cineteca del Friuli, le uniche che, per oltre un decennio, permettono di vedere il film sullo schermo.
Il 7 dicembre 1990 Cinemazero, con una esposizione delle fotografie scattate sul set da Elio Ciol, e con la pubblicazione Turoldo, il Friuli, Gli ultimi, riaccende il dibattito sulla necessità di restaurare la pellicola e di riproporre pubblicamente il film. Lo stesso Padre Davide Turoldo intervenuto all’inaugurazione della mostra assieme ad Andrea Zanzotto, Mario Quargnolo, Elio Ciol, Amedeo Giacomini si dichiara commosso per questo rinnovato interesse attorno alla sua opera. Nella stessa occasione l’allora presidente della CRUP Antonio Comelli annuncia la disponibilità dell’istituto di credito a sostenere economicamente il progetto di restauro.
Una gratitudine, quella di Padre Turoldo, che verrà confermata pochi mesi dopo, nell’agosto 1991, in una toccante lettera, che si può leggere come una sorta di passaggio del testimone, dove, ringraziandoci per il lavoro in corso per “recuperare” Gli ultimi, ci dice “Per quanto riguarda gli aspetti più tecnici — il doppiaggio, la colonna sonora — lascio ogni decisione a voi che siete degli esperti. Da parte mia, se tutto va in porto, vi chiederei solamente di fare avere anche a me una copia ‘sana’ del mio film.”
In effetti in quegli anni c’era stata una proposta della società Filmvideoimmagine di Pordenone di doppiare in friulano il film, ipotesi che poi è stata fortunatamente lasciata cadere. Nello stesso anno Gianni Pressacco allora presidente dell’Istitût Ladin Furlan ci informa che era riuscito a rintracciare l’amministratore di Le Grazie Film, la società udinese che produsse la pellicola. Si trattava di Carlo Feruglio, figura assai nota a Udine, che, con nostra grande meraviglia e stupore aveva conservato tutta la documentazione della società e, in quattro grandi casse di legno, mai aperte in 35 anni, tutta la pellicola girata e non utilizzata (doppi, tagli, scene eliminate, provini per circa 7000 metri di materiale). Nel 1999, anche grazie alla collaborazione di don Nicolino Borgo, Presidente dell’Associazione Turoldo, tutto questo prezioso materiale — vera memoria storica di quell’impresa — viene depositato presso la Cineteca del Friuli dove è stato catalogato e dove è disponibile per ulteriori studi e approfondimenti.
Il restauro del film, che interessa anche le scene scartate, i doppi, i provini con gli attori e il trailer d’epoca, si presenta oggi come un’operazione di “rinascita”, di rilettura e di diffusione. Il salvataggio del film ha inizio col ritorno sugli schermi della versione a 35mm, molto poco nota in questo formato dopo le prime scarse visioni del 1963.
Nel corso del 2002 è prevista la pubblicazione della videocassetta, mentre nel 2003 uscirà il DVD, un supporto, quest’ultimo, che permetterà la visione ed il confronto fra le varie versioni e i tanti ripensamenti che hanno portato all’edizione definitiva del film a partire da un primo montaggio parecchio più lungo.
Un percorso complesso e travagliato, dunque, ma di grande interesse culturale, che siamo lieti di aver portato a termine a dieci anni dalla morte di Padre Turoldo. – Sabrina Baracetti, Piero Colussi, Livio Jacob
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DAL PRESS BOOK
GIUSEPPE UNGARETTI: “SCHIETTA E ALTA POESIA”
Storie di bimbi hanno commosso tanti artisti. Esse nella letteratura delinearono molte figure indimenticabili. Due mi sono particolarmente care per motivi diversi, e che non è ora il momento di esporre: il “Moscardino” di Enrico Pea e “Poil de carotte” di Jules Renard.
Il film dal titolo Gli ultimi, su soggetto di PadreTuroldo, attuato per la regia di Pandolfi, presenta un bimbo. Dirò con pochissime frasi la mia commozione: è forte quanto quella provata alla lettura di Poil de carotte e di Moscardino. La suggestione cinematografica è, d’altra parte, questa volta solo paragonabile a quella da me provata guardando L’uomo di Aran [Robert Flaherty] o Vita di O-Haru donna galante [Kenji Mizoguchi]. Sarà la solitudine stupenda del Friuli nella quale ho vissuto nei primi due anni della prima guerra, alternandone il soggiorno con il Carso, sarà l’arte del bimbo incredibilmente spontanea e vera, sarà il modo semplice e assoluto di mostrare i terribili simboli della morte e della fame, so che si tratta di un film indimenticabile, infinitamente più bello dei pochi che quest’anno ho ammirato, si tratta dell’unico film di quest’anno unicamente dettato da schietta e alta poesia.
PIER PAOLO PASOLINI: “ASSOLUTA SEVERITÀ ESTETICA”
Una nostalgia in quanto peccato, e quindi dominata da un severo, quasi squallido senso di rinuncia, è l’ideologia di questo film. Esso vi è coerente dal principio alla fine, e finisce quindi col presentarsi come un sistema stilistico, chiuso e senza un cedimento o un compromesso. Non si sfugge né alla monotonia della nostalgia, né al grigiore della morale. Gli ultimi è un film monotono e grigio, ma carico di una esasperata coerenza col proprio assunto stilistico, e quindi profondamente poetico. Non per niente con c’è una inquadratura girata col sole: la luce è sempre quella dell’inverno con le nuvole alte e compatte, che, a loro modo, sono assolute come il sereno. E il paese è sempre immobile, in purissimo bianco e nero, e la campagna nuda, disegnata con una punta di ferro. La visione delle cose è sempre frontale, e, nel tempo stesso, ristretta, quasi che anche lo sguardo che un occhio, può, in fine, gettare liberamente al mondo, fosse dominato dall’obbligo morale alla piccolezza e alla rinuncia.
È evidentemente il sentimento religioso di Padre Turoldo, che impone questa parola, e dice: “Se nostalgia per il mio paese e la mia infanzia ci deve essere, non deve però abbellirli: deve anzi ridurli all’estremo, e la sua dilatazione deve solo avvenire nel senso della profondità”. Vito Pandolfi ha eseguito con assoluta severità estetica questo obbligo religioso quasi nevrotico. E tutti i personaggi tendono così ad assimilarsi ad esso: magri, stremati, grigi, malati, anonimi, sostenuti solo da un soffio di spiritualità quasi faziosa. Piano piano la suite della vita nel paesello pedemontano, con le sue case di sassi grigi e le sue strade bianche, nella luce accecante dell’aria di neve, diviene iterazione, litania: la serie degli episodi si fa ossessiva, e i significati della povera vicenda umana trapassano a una simbologia tanto più povera di ornamento quanto più ricca di un quasi fisico dolore.
UNA MATERIA NUOVA E NOBILE di Mario Quargnolo
Scrivendo su Gli ultimi non possiamo esimerci da una considerazione che, a parer nostro, ha diritto di precedenza su tutte le altre e che è questa: con essi è nato il film friulano e non per ambiziosa improvvisazione di sprovveduti chiusi in una goffa quanto impossibile autarchia, ma per il concorso del più impegnato apparato cinematografico nazionale. Infatti l’opera è distribuita dalla Globe Films (la casa che ha imposto in Italia Dreyer, Bergman, Resnais, Eisenstein); è stata diretta da Vito Pandolfi, civilissima figura di studioso di teatro e di cinema; ha avuto il soggetto di Davide Turoldo, letterato e poeta di indiscusso prestigio; è stata realizzata da una agguerrita “equipe” tecnica proveniente da Cinecittà. Insomma, basterebbero questi punti — sui quali ci ripromettiamo di ritornare — per fare gridare al miracolo e per indurre all’incondizionato elogio verso padre Turoldo, magnifico trascinatore di uomini e di mezzi, il quale ha saputo proporre il suo Friuli, angolo dimenticato della terra, alla meditazione universale.
Però come tutte le opere di poesia, anche Gli ultimi, attraverso il Friuli dolente degli anni Trenta, si inseriscono in un discorso più ampio e generale e noi li vediamo là dove la gente soffre, dove la terra è amara e dove ogni agricoltore è tormentato dall’antico e fatale dubbio: morire sopra gli amari sterpi della propria casa, oppure errare per il vasto mondo alla ricerca di un dubbio benessere, nel quale il pane è, in ogni caso, intriso duramente di sale? Il drammatico contesto di una condizione umana fiaccata, ma non spezzata è visto, nel film, con gli occhi sempre meno disincantati di Checo, il più sensibile e il più intelligente fra i ragazzi del borgo. Egli è lo spettatore e insieme il protagonista di una vicenda non lieta; come dal buco di una serratura Checo osserva, scopre, intuisce, piange e compiange l’annaspare a vuoto della sua famiglia e dei suoi simili. Nonostante il clangore degli “slogans” ufficiali i rurali sono abbandonati a loro stessi e la collettività si fa sentire solo con i manifesti di richiamo alle armi (sono in vista le guerre), col rincaro dei prezzi, con le tasse e con gli irrisori sussidi ai reduci. E i contadini si difendono emigrando e morendo nelle famigerate miniere europee, o vendendo la “vaccherella magra e stecchita” di manzoniana memoria, oppure annegando nel vino — dosato — i ricorrenti affanni. Checo, dunque, si fa uomo precocemente e a soli dieci anni, specie dopo la morte del fratello maggiore minatore in Belgio, sente urgenti le sue responsabilità. Gli ultimi però si chiudono con un presagio di speranza; i contadini resistono sulle loro posizioni e preparano, per i figli, un mondo migliore.
Si tratta, come si vede, di una materia nuova e nobile, di un messaggio sincero, sentito, sofferto e degno. La realizzazione, conscia della profondità del testo, ha risolto la sceneggiatura nei moti lenti e solenni degli interpreti, nei gesti dei quali c’è quella “maestà sacerdotale” di cui discorreva il D’Annunzio (si veda a questo proposito il “rito” della distribuzione della polenta), poiché la civiltà contadina ha antichissime origini e i patriarchi biblici erano soprattutto agricoltori. E si sente poi un’atmosfera plumbea, oppressiva contro la quale si muovono i personaggi quasi fossero costretti, a ogni passo, ad allontanare un ostacolo. E poi ci sono pagine di altissima poesia, come quella veglia funebre o quel morto abbandonato su un carro di letame, denuncia eloquente di una situazione lacerante, o lo squarcio “solare” delle nozze in cui l’allegria sconfina nella tristezza. Ma, innanzitutto colpiscono questi uomini, carichi di un lungo sentimento di rassegnazione, nei quali non viene mai meno la dignità.
La fotografia di Armando Nannuzzi (Giovani mariti, La notte brava, Adua e le compagne, Il bell’Antonio, Renzo e Luciana, Il brigante, Una vita violenta e Mafioso) è di una qualità superiore: pastosa, casta, mirabilmente chiaroscurata, suggestiva fino alla commozione, essa ci sembra veramente meritevole, per il suo autore, del secondo nastro d’argento (il primo lo ha ottenuto nel 1958 per Giovani mariti). Non ci è possibile citare tutte le variazioni di bravura di Nannuzzi; ricordiamo solo, alla svelta, quell’incredibile inizio, tutto mezzi toni, che fa restare col fiato sospeso mentre scorrono i titoli di testa; ma non possiamo neppure tralasciare una rapida citazione per la sequenza del mulino dove le chiare, fresche, dolci e spumeggianti acque del canale formano l’insieme felice e libero che accompagna il primo ingenuo canto del protagonista al dolcissimo sentimento che sorge. Degna di ogni elogio è anche la musica di Carlo Rustichelli, considerato dagli esperti, il miglior commentatore di film italiani. Il piccolo Adelfo Galli (Checo) è di una vibrante spontaneità, e non sfigurerà certo in una eventuale galleria degli “enfants prodiges” dello schermo. Sincere approvazioni meritano anche i “nostri” Bruno Bartolomeo Vianello, preziosissimo scenografo, ed Elio Ciol, impareggiabile fotografo di scena.
Queste note non sarebbero né complete, né obiettive se non ospitassero anche alcune doverose riserve. La prima riguarda il simbolismo, troppo inserito, dello spaventapasseri, certamente pregevole sulla pagina scritta, ma un po’ fastidioso sulla trascrizione filmica. La seconda è relativa all’insufficiente “storicizzazione”; non bastano sparsi cenni per dare la chiara idea di un’epoca, che si vorrebbe ben localizzata (qui può darsi siano imputabili gli scarsi mezzi). La terza, infine, è costituita dalla voce di padre Turoldo attribuita al contadino padre di Checo.
Ma questi rilievi non scalfiscono la validità dell’opera e sono soffocati dal peso dei numerosissimi dati positivi. E siamo certi che essi spariranno nel secondo e terzo momento della trilogia di Checo, già annunciata da padre Turoldo, e che egli riuscirà certamente a portare a compimento, in quanto Checo è un personaggio che preme troppo al suo autore per abbandonarlo così a un terzo di strada; per molti segni infatti abbiamo creduto di individuare nella fanciullezza di Checo quella di padre Turoldo”.
(Il Gazzettino, 30 gennaio 1963)
IL RESTAURO
Nell’intraprendere il restauro di un film ci si trova spesso alle prese, vuoi per motivi di censura, che di mercato, che autoriali. con opere esistenti in un numero notevole di varianti; se a questo si aggiungono le fonti scritte, le testimonianze dirette a volte discordanti e per non parlare dei problemi strettamente tecnici: come riprodurre la qualità fotografica di un film del passato sulle nuove pellicole ed emulsioni di oggi, si comprende quanto sia importante il lavoro di ricerca e di documentazione per pervenire a un risultato attendibile. Gli ultimi non si sottrae a queste problematiche.
Degli Ultimi erano note la versione 16mm distribuita negli anni Ottanta dalla Sampaolo Film (conservata in tre copie dalla Cineteca del Friuli e in un esemplare da Cinemazero) e corrispondente alla versione video distribuita dalla Sampaolo Audiovisivi; quattro copie positive conservate all’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio tre delle quali identiche alla versione 16mm e una con un finale diverso nella voce fuori campo; una copia 35mm, quella personale di Turoldo, conservata a Sotto il Monte, a due passi da Bergamo.
Agli inizi degli anni Novanta, la ricerca di Sabrina Baracetti ha portato alla luce dall’archivio di Vito Pandolfi una delle stesure della sceneggiatura, note di lavorazione, corrispondenza varia. Tre anni fa alla Cineteca del Friuli è sato depositato il negativo di tutto il materiale girato (i ciak) per un totale di circa 7000 metri. Tra questo materiale, dettagliatamente catalogato da Elena Beltrami, ci sono molte scene che non furono inserite nel montaggio finale e documentano la complessa lavorazione del film e i molteplici ripensamenti.
Alcuni mesi fa, infine, sono stati recuperati i materiali conservati presso gli stabilimenti di Cinecittà, dove la pellicola fu originariamente sviluppata e stampata, comprendenti oltre al negativo originale e alcuni tagli, per circa 300 metri; un duplicato positivo di prima generazione corrispondente a un’edizione precedente a quella conosciuta in quanto include i tagli; inoltre una copia lavoro anch’essa in un’edizione corrispondente a quella nota, ma con a parte alcuni tagli. Si è posto quindi il problema di capire quale fosse stata la vicenda produttiva del film, e a che punto fosse intervenuta la decisione di apportare dei tagli. È stato determinante il lavoro di confronto tra materiali filmici ed extrafilmici. Da un’analisi della pellicola risultava evidente che il duplicato positivo proveniva direttamente dal negativo in un’edizione più lunga e con alcune differenze di montaggio: la scena del mulino, infatti, arriva alla fine dell’ottavo rullo mentre nell’edizione nota è collocata all’inizio del settimo rullo.
Stando alla documentazione raccolta in censura e alle note di lavorazione del film, presumibilmente ci fu una prima edizione presentata nell’estate del 1962 per la selezione al Festival di Venezia nella sezione “Informativa”. Il film fu rifiutato. Vito Pandolfi nell’ottobre del 1962 in una lettera al critico Guido Aristarco afferma di aver apportato delle modifiche al film dopo la proiezione veneziana. Pandolfi parla di dieci minuti di tagli e dell’aggiunta di uno speaker. Il duplicato positivo dovrebbe essere la testimonianza di quella prima versione “veneziana”. Ciò sarebbe confermato dai documenti di censura che indicano un metraggio di 2425 metri, contro i 2620 del duplicato positivo. La lista dialoghi che accompagna la richiesta di revisione corrisponde alla “versione lunga” del film, ciò testimonia che le due versioni furono realizzate in tempi ravvicinati.
Cosa restaurare quindi? La scelta finale è stata di non reinserire i tagli (questi sono stati comunque duplicati e preservati per essere utilizzate nella futura edizione del DVD): si tratta, infatti, di tagli che sono comunque scelte espressive volute dall’autore.
La copia restaurata degli Ultimi è stata stampata a partire dal negativo originale da cui è stata ottenuta una prima copia di controllo per verificare la qualità di stampa e da questa sono state rilevate le buone condizioni fisiche e fotografiche del negativo che presentava alcuni graffi e soli in pochi fotogrammi un asporto minimo di gelatina. La qualità fotografica è a tratti compromessa da alcune fasce di diversa densità dovuta alle modalità di sviluppo originarie.
Essendo le attuali pellicole ed emulsioni diverse da quelle d’epoca, dalla copia di controllo si è valutato la posa delle luci al fine di ottenere un corretto bilanciamento del bianco nero su tutto il film, il più possibili vicino all’originale.
In parallelo si è proceduto alle operazioni di restauro del sonoro.
Dal negativo si è stampato un positivo, che riversato su DAT ha consentito un intervento digitale per eliminare rumori parassiti sulla colonna che così corretta è stata trascritta su un nuovo negativo ottico DOLBY SR (che non significa la trasformazione del segnale mono originario ma il suo passaggio sui canali dolby al fine di consentire la lettura con le attuali apparecchiature). Il film è stato così preservato, ossia sono stati ottenuti un nuovo duplicato positivo e da questo un duplicato negativo da cui sono state tratte le nuove copie positive corrispondenti alle operazioni di restauro.
Il restauro è stato effettuato a Roma, presso i laboratori di Studio Cine, ed è stato possibile grazie alla collaborazione dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico di Roma e di Cinecittà Studios. – Cristina D’Osualdo
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Lino Turoldo nella parte del padre di Checo
(ingrandimento di fotogramma).
VOCI E SUONI DAL SET
La copia lavoro di GLI ULTIMI è uguale nel montaggio a quella “ufficiale”, ma non ha la colonna sonora definitiva, quella con i dialoghi doppiati, bensì quella che preserva le voci del set con le istruzioni del regista Pandolfi e molte scene con le autentiche voci degli interpreti. C’è Lino Turoldo che parla il più delle volte in friulano; si possono inoltre ascoltare in presa diretta la mamma, la maestra, il sacrestano, lo stesso Checo e altri. Curiosamente in almeno tre scene, quelle in famiglia, la conversazione si svolge tutta in friulano. La voce un po’ roca ma bella di Lino è stata poi sostituita, nella versione definitiva della pellicola, da quella, più vibrante, di Davide Maria Turoldo.
I TAGLI PIÙ SIGNIFICATIVI
Dal terzo rullo è stata eliminata la scena in cui un uomo vestito in foggia antica si avvicina a Checo, che è seduto nel campo dove ha portato le pecore a pascolare e sta disegnando un cerchio sulla pietra. Checo sta immaginando di essere un nuovo Giotto e di essere scoperto da un nuovo Cimabue: l’uomo che entra in campo è la probabile incarnazione di quella fantasia.
Dal rullo ottavo sono state tagliate tre scene: una in cui Checo, dal tetto di una bassa costruzione, spia un gruppo di bambine giocare a ruba fazzoletto. Fra queste bambine c’è Josette che viene buttata a terra dalle amiche, queste escono di campo lasciandola lì sola.
In una seconda scena Checo spia le gesta dei due ragazzini che porteranno il bottiglione di vino al gruppo di amici per berlo poi tutti insieme. I due, dopo aver bevuto da quella bottiglia la rimboccano con l’acqua del fiume.
La terza inquadratura eliminata mostra Checo e Josette che corrono via tenendosi per mano: stanno per recarsi al mulino. Il fatto di aver trovato il taglio nel rullo otto conferma che la scena del mulino inizialmente era stata inserita alla fine dell’ottavo rullo e non all’inizio del settimo come nell’edizione finale del film.
Dal nono rullo sono state eliminate due scene:
nella prima uno spaventapasseri è di fronte ad un corso d’acqua, Checo gli si avvicina, prende con le mani dell’acqua dal ruscello e gliela dà da bere poi gli si affianca per specchiarsi con lui nel fiume. Nell’altra scena eliminata uno spaventapasseri è circondato da un cerchio di fuoco, Checo entra in campo, lo raggiunge ed inizia a toccarlo: prima gli tocca la gola, poi si tocca la sua, quindi gli aggiusta il bavero della giacca e il cappello ed esce di campo.
– Elena Beltrami