dal Messaggero Veneto del 15/12/2001

Il prossimo appuntamento con padre David Maria a febbraio, nel decimo anniversario della morte

Si conclude stasera nel duomo di Gemona il percorso poetico dedicato al religioso


di MARIO TURELLO

«Io c’ero e posso testimoniare che tempi erano quelli. Attorno alla Bibbia, più che altro sfruttata come un giacimento per citazioni sparse e spesso avulse dal contesto (provare per credere andando a guardare certi manuali di teologia di allora), era steso come un cordone protettivo, stavo per dire sanitario: hic sunt leones (e il bello è che è vero). Tra noi compagni, parlo del tempo del noviziato, egli (Turoldo) era l’unico che fosse riuscito fortunosamente a mettere le mani su una Bibbia. La vedo ancora, tutta segnata».

Ho scelto di iniziare con la testimonianza di padre Camillo De Piaz sugli anni di seminario di Turoldo perché mi sembra necessario, a definire e a valutare pertinentemente la sua poesia, ribadire che, come rileva Zanzotto nella sua introduzione alla raccolta O sensi miei, «la formazione di padre David in quanto poeta è evidentemente biblica, e anzi un continuo confronto con la Bibbia, un richiamarsi ad essa, ai suoi temi, valori e personaggi (anche sotto il profilo stilistico dove la situazione lo consenta)». Senza misconoscere in Turoldo la «buona conoscenza dei classici e dei moderni», su cui pure Zanzotto si diffonde, è secondo me con l’attributo di “biblico”, e sarei tentato di specificare “veterotestamentario” che meglio si connota quello che padre David amava chiamare, piuttosto che poesia, canto: della sacra Scrittura egli rimodula la poetica, persino in quelli che potrebbero sembrare semplicemente dei tratti umorali (l’ironia, l’invettiva, l’imprecazione, l’apostrofe) e le forme più estreme, al limite scandalose, di una tormentata spiritualità.

Non fu certo pensando alla regalità di David che Turoldo ne assunse il nome nel farsi servo di Maria: si identificò piuttosto con l’uomo della fionda e della cetra, e spesso il suo canto fu cetra e fionda al tempo stesso. Davide, e Giacobbe, che fu chiamato Israel per aver lottato con Dio, e Giobbe: «Io sono ritornato a Giobbe perché non posso vivere senza di lui, perché sento che il mio tempo, come ogni tempo, è quello di Giobbe; e che, se ciò non si avverte, è solo per incoscienza o illusione. Io sono ritornato a lui, perché da lui ho ricevuto l’unica soluzione possibile della mia vita», scrisse nel 1951 presentando Da una casa di fango, il grande libro della chiamata in giudizio di Dio, e ancora Qohèlet, interlocutore di notti troppo scure per essere notti mistiche. Fu la sua una fede difficile, e più difficile la speranza, ma incrollabili: una lunga contesa, una teomachia al termine della quale resa e vittoria si identificano.

Ma c’è poi il Cristo, il Dio fattosi uomo, il Gesù che inizia la propria predicazione leggendo il rotolo di Isaia e dichiarando adempiuto in sé il lieto messaggio di riscatto per i poveri, per i prigionieri, per gli oppressi: e Turoldo fu profeta veemente della giustizia verso i poveri e della salvezza attraverso la povertà, e sappiamo come tuonasse contro i ricchi e i potenti nelle sue omelie savonaroliane, e quello di Nomadelfia è solo uno, se pure il più drammatico, dei momenti in cui padre David si scontrò con la gerarchia ecclesiastica in nome del Vangelo (ma nonostante tutto rimase frate, e mantenne l’obbedienza). E questo risuona nel suo canto, fino a farsi urlo e maledizione, con virulenza anch’essa sconcertante: ma nel Salterio troviamo violenza anche maggiore, e se ci fa scandalo è forse perché abbiamo ridotto il nostro rapporto con Dio a consuetudine consolatoria, o a piagnucolio.

Questo ho voluto dire perché nei due convegni della scorsa settimana la poesia di Turoldo è stata messa in questione. Senza addentrarmi in argomentazioni, vorrei solo richiamare a una lettura della sua opera iuxta propria principia, per quello che ha voluto essere: uno scandaglio nel mistero divino, e un poiein nel senso più fattuale del termine; un fare, o un rifare, un ricreare il mondo.

Peraltro in quelle che vengono proposte non vi è traccia della concitazione, della veemenza, dell’enfasi di alcune delle liriche fin troppo risapute: cercavamo quelle che meglio esprimessero le urgenze del suo animo e abbiamo trovato, mi pare, misura e intensità composta. La nostra antologia si organizza intorno a quattro nuclei tematici – il Friuli, le parole, la città, il rapporto con Dio –, i quattro elementi di cui si sostanzia la poesia di Turoldo; una brevissima sezione finale, tratta dai Canti ultimi, ne distilla la quintessenza con il richiamo, in serena prossimità della morte, alla infinita Bellezza divina.

Dopo un limpido idillio, il Friuli ci si presenta come il poverissimo presepe ove Turoldo sentiva compiuta e veramente prossima a Dio la propria umanità; viene poi la celebrazione della morte, ristoro e conquista dei suoi genitori, e loro restituzione alle generazioni dei morti, al carico miracoloso di secoli che la pietà della memoria assumeva nella preghiera. E gli addii e i ritorni, con le parole dell’umiltà materna: «Figlio, sono cose troppo grandi per noi» che trovano risonanza tanto più amara nell’esperienza sacerdotale.

E poi le parole, insufficienti a dire Dio nel canto, ma sovrabbondanti nell’ucciderlo col frastuono della chiacchiera, o con la mestizia delle omelie; parole dettate dalle pietre, parole come pietre, ma pure carne che cerca il suo verbo, per rigenerarsi e rigenerare.

E ancora la città come luogo apocalittico senza rivelazione, la città senza amore né canto né gioia, luogo di presenze inutili e di alienazione, le città-cimitero, le grandi capitali in cui i potenti in pompa e orpello tramano sulla testa dei piccoli, l’Europa maliarda e avida che ha ridotto i suoi santi all’impotenza, e l’invocazione d’essere restituito allo spazio sicuro del paese e della casa, e l’esortazione a tornare alla fede, alla speranza, all’amore, che ancor vivi nei «giorni del rischio» e della paura, ora si spengono al «vento di più raffinata barbarie».

E il confronto ancipite con Dio, i notturni conversari con Lui nel segreto della cella, tra credo e incredulità, tra comunione e senso di abbandono; liriche ove Turoldo ritrova le parole e le immagini dei mistici – la notte il gorgo l’abisso il Nulla – a dire il sottrarsi del Dio cercato, la prossimità del Dio fuggito, il suo manifestarsi d’accattone al margine delle strade, o il sentore di lui in segni quasi impercettibili. Da ultimo lo spogliarsi, l’abbandono completo, e il risolversi del mistero in bellezza, e della morte – amica segreta di interminabili colloqui – in ritorno.