SAN GIOVANNI APOSTOLO ED
EVANGELISTA
III Giorno dell’Ottava del Natale – anno C
1 Gv 1,1-10 ; Rom 8c-15 ; Gv 21,
19c-24
Nella festa di san Giovanni
Apostolo, riascoltiamo la voce di uno che ha toccato, udito, visto,
sperimentato la parola della vita, la forza del Vangelo. E ci trasmette l’umile
fierezza di essere testimoni del Verbo della vita. Per questo domandiamo un
cuore libero e pacificato.
Dice Giovanni: Dio è
luce. Se abbiamo testimoniato
un Dio oscuro, ombroso, che non ha un
cuore di luce, Kyrie eleison
Dice Paolo: E’ con il
cuore che si crede. Se abbiamo
creduto solo con la testa, per tradizione o per paura ma non con il cuore, Kyrie
eleison
Dice il Vangelo: noi
sappiamo che la sua testimonianza è vera. Per quando, invece, la nostra testimonianza non è
stata confermata dalla nostra vita, Kyrie eleison
Omelia
In Avvento, Giovanni il Battista; dopo Natale,
Giovanni Evangelista.
Li troviamo raffigurati qui, nel presbiterio, a fianco
dell’altare:
Giovanni del Giordano e Giovanni del Lago.
Il Giovanni delle acque battesimali e il Giovanni
dell’inchiostro.
Il Giovanni della testa tagliata per la danza di
Erodiade
e quello della testa posata sul petto di Gesù.
Il Profeta che gridava di fuoco e di scure alla radice,
e il Discepolo che parla d’amore come nessuno.
Giovanni delle locuste e Giovanni dell’aquila, perché
simbolo del suo vangelo è il volo, il volo più alto.
Penso alla testa di Giovanni posata sul petto di Gesù
nell’Ultima Cena a sentir battere il suo cuore, a parlargli sul cuore, estrema
vicinanza all’umanità di Gesù.
Il Precursore e il Discepolo, colui che precede e
colui che segue, ma più nostro sentiamo il Giovanni del vangelo, “quel
discepolo che Gesù amava”.
Giovanni non è quello che ama di più, quello è Pietro, e Gesù lo sa e vuole sentirselo ripetere, per tre
volte: “Pietro, mi ami? mi ami più di tutti?”. Giovanni e Pietro: l’amato e l’amante.
L’amato, il raggiunto,
il catturato dall’amore di preferenza di Cristo, ci indica l’importanza
del lasciarci amare, il primato dell’amore passivo.
Aggettivo che non ci piace,‘passivo’, noi vogliamo essere protagonisti, ci sembra poca cosa
essere amati, poco meritorio. Noi vogliamo dirigere e fare, decidere e creare.
Invece quanta bellezza ed energia erompono quando su
di te si posa amore. Quanta vita trasmette il sentirsi amati. Essere stati
amati anche una sola volta, di amore puro, disinteressato, salva la vita per
sempre dall’insignificanza e dal non senso.
Allora davanti a ogni Crocifisso, ad ogni Icona, davanti
a ogni Presepio non vado per guardare e per spremere faticosi atti d’amore
verso Dio, ma innanzitutto andrò per lasciarmi guardare da Lui, dalle sue
piaghe, dai suoi occhi di bambino, andrò per lasciarmi amare.
Tutti, come Giovanni, amati; tutti, come Giovanni,
prediletti, ciascuno è il prediletto
di Dio, perché Dio preferisce ciascuno, ognuno è figlio prediletto.
(Don Gino Piccio concludeva sempre la confessione
così: lasciati amare da Dio).
Lasciarsi amare è gravido di una potenza di
rivelazioni. Giovanni è l’unico dei dodici che rimane presso la Croce, lì
riceve lo Spirito per primo, lì riceve la Madre. Arriva per primo al sepolcro, in
quella corsa al mattino di Pasqua, primo a capirne il senso: vide e credette.
L’amato ha la rivelazione più folgorante, più penetrante di
Dio, quando per due volte afferma, in un’estasi: “Dio è amore, Dio è amore!”
Riascoltiamo l’inizio della Prima Lettera di Giovanni,
prima lettura di oggi: “Ciò che abbiamo udito, ciò che abbiamo veduto, ciò
che abbiamo contemplato, ciò che le nostre mani hanno toccato, (anzi il
verbo greco dice: “Ciò che le nostre mani hanno palpato), ossia il Verbo
della vita, noi ve lo annunciamo”.
Giovanni era grande negli inizi dei suoi scritti, un
volo d’aquila a dire subito tutto. Come nell’inizio strepitoso del suo Vangelo:
“In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”.
Quel Vangelo, quell’inizio che ha illuminato la notte di Natale, quello
sfondamento nell’infinito e nell’eterno.
E ora questo inizio, una sintesi non di dottrina ma di
occhi e di mani; non di pensieri, ma di esperienza: Io ho veduto, io ho
udito, io ho palpato.
Che cosa? Il verbo della vita. Vi annuncio non
ciò che ho studiato, non ciò che ho pensato, ma ciò che con tutti i miei sensi
ho sentito e percepito: “Il Verbo della vita!” Io sono stanco di dire Dio, io voglio sentirlo, gemeva Pascal.
Gesù non
ci trasmette una teoria religiosa, non porta un nuovo sistema di pensiero, ma
comunica sapore di vita, profumo di vita, melodia di vita e poi un anelito
verso più grande vita. Il suo nome è gioia, libertà e pienezza!
Solo colui che ha toccato, ha il diritto e il dovere di parlare.
Il testimone non parla per sentito dire, non ripete
parole d’altri, il suo è sempre un canto nuovo.
Diceva p. Vannucci: “Non pensate pensieri già pensati da altri!”
Giovanni ha convocato i sensi, occhi, orecchie, mani e
dice di aver toccato la Parola della Vita. Ma come si può toccare la Parola? Si
può toccarla facendola nostra carne e sangue e sensi.
Il Verbo della vita ha bisogno di noi, dei nostri
corpi, di me, ha bisogno di un capitale di incarnazione che io gli devo
fornire. Progredisce per contagio.
Dice Giovanni un’espressione stupenda: “Il Verbo
della vita”.
– Verbo che fa vivere in pienezza, non solo
sopravvivere; fa vivere l’universo.
– Verbo che dà vita
al cuore, che allarga, dilata, purifica il cuore, ne scioglie le durezze,
questa malattia estrema della durezza di cuore.
– Verbo che dà vita
alla mente perché la mente vive di libertà altrimenti patisce, vive di
verità altrimenti si ammala.
– Verbo che dà vita
allo spirito, a quest’anima assetata di cielo, e porta dentro di me il
respiro di Dio.
– Che dà vita al
corpo: perché si è fatto carne e da
allora c’è qualcosa di Dio in ogni carne, che respira in ogni respiro, che
palpita nel sangue: perché in Lui siamo,
viviamo e respiriamo.
Allora capiamo il poeta, p. Turoldo quando scrive: “Il
corpo cattedrale dell’amore. E i sensi divine tastiere”.
Ciò che ho visto, contemplato, udito, toccato, i sensi sono una tastiera di pianoforte, un organo di
cattedrale che suona le note della vita;
tastiera toccata, percorsa dalle mani di Dio
che prova su di te gli accordi di una sinfonia
che parla di alleanza armoniosa e gioiosa con tutto
ciò che vive.
In fine a tutto tu sei uno strumento di Dio.
Lasciati adoperare.
In fine a tutto, lasciati amare.
Amami tu, Signore,
anche
se non sono amabile,
anche
se sono povero,
anche
se non lo merito,
anche
se ti amo poco,
amami
tu, Signore.
Quando mi alzo al mattino, pieno si sogni,
quando mi corico alla sera, pieno di delusioni,
quando lavoro e sono stanco,
quando mi riposo e sono vuoto,
quando prego così distratto,
quando non ho voglia di amarti,
amami tu, Signore,
Quando
penso di amare te senza amare gli uomini,
quando
mi illudo di amare gli uomini senza amare te,
quando
temo di amare troppo
amami
tu, Signore.
Quando ho paura di compromettermi,
e ho paura di impegnarmi,
quando fuggo l’amore
quando nessuno mi ama
amami tu, Signore. (A. Zarri)
Ma cosa amo quando amo Te?
Non è la grazia di un corpo, non è il fascino del
mondo,
non la
candida luce amica di questi occhi,
non la carezza melodiosa dei canti, non il profumo di
fiori,
non la manna e il miele.
Non le membra che si cercano negli abbracci dei corpi,
non è questo che amo quando amo il mio Dio.
Eppure amo una sorta di luce,
una sorta di voce e di profumo e di cibo,
una sorta di abbraccio, quando amo il mio Dio.
Luce, voce, profumo, cibo e abbraccio per l’uomo
interiore,
dove ogni cosa splende e risuona e profuma per l’anima,
dove c’è luce che lo spazio non dissolve
e musica non rapita dal tempo
e profumo che il vento non disperde
e sapore che la sazietà non riduce
e un abbraccio che non si scioglie.
Questo è quello che amo quando amo il mio Dio” (sant’Agostino).
p. Ermes Ronchi