VII Domenica dopo Pentecoste
27.07.2014
Luca 13, 22-30
Benvenuti alla messa della comunità, a cercare ancora
una volta insieme di incontrare il Signore nella Parola, nel Pane, nel Perdono.
Come fare per riconoscerlo, così sottile, così leggero il suo respiro? Noi lo riconosciamo
nei gesti di tenerezza che mi hanno raggiunto, nel coraggio improvviso, nel
volto di chi ho aiutato, di chi mi ha aiutato.
Eucaristia significa ringraziamento.
La iniziamo ringraziando, ognuno ha qualcosa per cui dire grazie e per
rimettere al centro di tutto Dio, adesso, in silenzio…
Oggi il Vangelo della
porta stretta pone una domanda
molto seria: come fare perché il Signore non dica anche a noi: Non so di dove siete…? Chiediamo
perdono per ciò che ci ha reso dissomiglianti da Lui.
Tu che fasci le piaghe del nostro
fragile e contorto cuore, per
tutte le ombre che salgono da dentro, Kyrie eleison
Tu che conti le innumerevoli stelle e
conosci ad una ad una tutte le nostre debolezze, per quando ci è mancato il cuore di dare aiuto, Kyrie
eleison
Tu
che sai quante volte abbiamo cercato la porta larga, per tutte le nostre scelte di comodo, per tutte le
scelte non fatte, Kyrie eleison
Omelia
Un tale gli chiese: Signore sono
pochi quelli che si salvano? Gesù non risponde. E quando nel Vangelo non
risponde a una domanda è perché la domanda non ha senso, o è posta male. Quella
domanda è sbagliata perché riguarda loro, gli altri, non mi tocca.
Gesù cambia il soggetto della frase: sono
tanti o sono pochi? Lo cambia dalla terza persona alla seconda persona: Sforzatevi, voi, di entrare. Risponde
con qualcosa che mi riguarda direttamente, in prima persona.
La fede ha due
porte, una larga e una stretta. La prima è un ampio portale dove possono
passare anche cento persone alla volta, ma non conduce da nessuna parte. Per la
porta larga vuole passare chi crede di avere addosso l’odore di Dio, preso tra
incensi, riti e preghiere, e di questo si vanta.
La seconda sembra una porticina di servizio, nascosta sul retro, ma è
quella che si apre sulla sala della festa. Una porta stretta, ma per una
esistenza larga, dilatata, in pienezza. Per questa –
che è come una porta di servizio – preferisce entrare chi ha addosso l’odore
delle pecore, l’operaio di Dio con le mani sporche per il lavoro e il cuore
umile.
Quando il padrone di casa chiuderà la porta, voi
busserete: Signore, aprici. Da dentro una risposta dura:
non so di dove siete. Ma come? Abbiamo mangiato e bevuto alla tua
presenza, hai insegnato nelle nostre piazze. La stessa risposta secca: non
vi conosco. Voi avete false credenziali. La vostra religione non ha ancora
niente a che fare con il vangelo fatto carne, con la fede fatta sangue.
Costoro hanno
compiuto sì azioni per Dio, ma nessuna azione per i fratelli.
La porticina è una scelta concreta di vita: quella di chi capisce che le
cose di Dio o stanno insieme con le cose dell’uomo o non valgono nulla. Di chi
traduce “fede” con amare, prendersi cura, portare pace e giustizia, il
“protocollo del cristiano” dice papa Francesco. La fede vera si mostra non
da come uno parla di Dio, ma da come parla della vita, da lì capisco se ha
soggiornato in Dio (S. Weil).
Ai contemporanei
di Gesù succedeva di mangiare e bere con lui, di ascoltarlo predicare, eppure
di non capire, di non cambiare. Così a noi può succedere di assistere a messe,
di ascoltare prediche, di riempire le piazze o gli stadi per qualche evento
religioso, ma questo non basta. Non basta mangiare Gesù che è il pane, occorre
farsi pane.
Come indica il
seguito della parabola: dietro la porta chiusa, la voce conclude:
Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia. Il riconoscimento, la credenziale è in
queste due parole: operare la giustizia.
Dio non ti
riconosce per formule o riti o simboli, non perché vai in chiesa e sei
virtuoso, ma perché sei operatore di
giustizia, perché sei giusto e onesto e retto; ti riconosce non perché
semplicemente fai delle cose per lui, ma perché con lui e come lui fai delle cose per gli altri.
La misura è nella
vita. Non vi conosco: I vostri modi
di vedere la vita, i vostri interessi non c’entrano niente con i miei. Non
so di dove siete: venite da un altro pianeta rispetto al mio, da altri
territori dello spirito.
Voi pulite l’esterno del
piatto, ma il vostro cuore è pieno di cattiveria; pagate le tasse sulla menta e
sulla rucola, e lasciate morire la giustizia e l’amore di Dio (Lc 11,39-42). La religione
può uccidere la tenerezza. Contro questa devianza si ergevano unanimi i
profeti.
Penso che il
personaggio che ha posto a Gesù la domanda su quanti si salvano fosse un
sacerdote, o comunque un funzionario del sacro, della istituzione. Perché sento
anch’io, per me, per me come prete, il pericolo di parlare della salvezza come
se fosse qualcosa che riguarda gli altri, quelli che ascoltano.
A me come prete,
uomo di chiesa, sento che spesso si è attaccata addosso la giustificazione di
quelli rimasti davanti alla porta: abbiamo
mangiato e bevuto alla tua presenza. E io rifletto e penso a quante messe
ho celebrato, a quante volte pane e vino ho mangiato all’altare del Signore. A
quante assemblee o manifestazioni che riempivano piazza san Pietro o piazza
Duomo, ho partecipato. Vedete a che cosa si appellano? Si appellano alla
appartenenza ecclesiale e alla frequentazione dei sacramenti. Cose bellissime.
Ma dobbiamo avere il coraggio di dichiararle insufficienti, come fa Gesù, come
hanno fatto i profeti.
E qui c’è qualcosa
di paradossale, di tremendo a ben pensarci: a me, a noi, uomini e donne delle
celebrazioni nelle chiese e nelle piazze, Lui potrebbe dire: non mi riconosco in voi, non so di che
paese, di che mondo dello spirito voi siete.
Mi pare, di
leggere qui l’opposizione frontale di Gesù al clericalismo, quel mondo
autoreferenziale, fatto di apparato e di apparenze, di riti, di formule, di
curie, dove il centro è la forma e il ruolo. La sua opposizione alla fede di
facciata, quella corteccia vuota talvolta e amara, che impoverisce e ingrigisce
l’anima. Vuole farci passare dalla corteccia al nervo della fede.
La conclusione della piccola parabola è piena di sorprese. Prima di tutto è
sfatata l’idea della porta stretta come porta per pochi, per i più bravi, i
primi della classe. Tutti possono passare per la porta stretta, moltitudini. Di
più, Gesù immagina una festa multicolore, multietnica: verranno da oriente e
occidente, dal nord e dal sud del mondo e siederanno a mensa. Il sogno di
Dio: far sorgere figli da ogni dove.
Non sono richieste
appartenenze di religione, di chiesa, di confessione, non i passaporti in
regola. Li raccoglie da tutti gli angoli del mondo, variopinti clandestini del
regno, arrivati ultimi e per lui considerati primi. Una sorpresa, questi volti.
Simile alla sorpresa che abbiamo provato tutte le volte che, in prima linea a
dare una mano, quando c’era un problema, un bisogno, un disastro ambientale, in
prima linea per la giustizia e la salvaguardia del creato, abbiamo visto facce
che non avevamo mai visto in chiesa. Ultimi diventati primi. Cristiani di
fatto, anche se non di nome, gente che produce fatti di vangelo. Hanno accolto
Dio, per mille strade diverse. E lui ha dato loro i suoi occhi e un pezzo del
suo cuore.
Dio conosce quelli
che mettono la loro vita a disposizione degli altri.
Gesù
questi li riconosce dall’odore, lui che con le pecore sperdute, malate,
sofferenti si è mischiato per tutta la vita.
Li
riconosce perché sanno il suo stesso odore.
PREGHIERA ALLA COMUNIONE
Signore, Tu sei la porta
Che attraversiamo per venire
alla luce.
Tu sei il parto
Che ci mette al mondo
dentro una terra finalmente nuova.
Tu sei la porta piccola
che mi fa povero e semplice
e bambino.
Tu sei la porta bella
che mi fa grande
e mi introduce nella stanza
dell’amata:
“aprimi sorella mia, amica
mia, mia bella…”.
Fammi come Te, Signore,
piccola porta ma sempre
aperta,
per cui uomini e donne
passino
trovando pane e vino,
e sorsi di giustizia
e germogli di sorrisi.
Una porta nella mia
corteccia apri,
come fa il contadino per
l’innesto,
perché vita entri e vita
esca:
quella dei fratelli e la
tua,
Tu che vieni con il tuo
passo di luce,
o eterno Sole. Amen.