dal Messaggero Veneto del 25/03/2002

Caro professore, leggo sempre con molta attenzione i suoi scritti e ho notato, con soddisfazione, che lei non si è fatto contagiare (al contrario di tanti suoi colleghi) dal virus esterofilo. «Siamo dei miliardari che chiedono l’elemosina all’estero» disse l’indimenticabile Cesare Marchi, riferendosi ai mass media che troppo spesso trascurano la madrelingua, preferendole quella straniera. Infatti, affetti da una grave forma di anglofilia cronica, non soltanto gli addetti ai lavori, ma anche i governanti adoperano certe espressioni, spesso ai più incomprensibili. Qualche esempio? “Welfare state”, “privacy”, “trend” e potrei continuare a iosa. Le domando: perché c’è tanto disprezzo nei confronti della lingua di Dante?
C.F. Udine


Egregio professore, spesso mi trovo a lagnarmi di termini stranieri, perlopiù oscuri e perlopiù inglesi, che infarciscono le cronache giornalistiche e televisive italiane. Ma come, mi chiedo, non abbiamo forse nella nostra lingua i corrispondenti vocaboli? Quale bisogno c’è di continuare a usare a proposito (e spesso a sproposito) parole che non ci appartengono e che molti non capiscono? Sono una sua assidua lettrice e ho notato che lei si tiene lontano da questa moda imperante; però, poco tempo fa, assistendo a una sua conferenza, ho sentito dalla sua voce almeno un paio di termini stranieri. Mica comincerà anche lei…
A.F. – Mortegliano


Gentili signori, le vostre lettere sono puntate sul medesimo obiettivo, consentitemi di rispondervi all’unisono, e cercherò di mettervi, in fondo, anche il tocco dello strizzacervelli. Parto da due fatti personali, che mi capitano pressoché ogni mattina: da vari anni non uso più portare cravatte, mi annodo un foulard, e sono solito bere un caffè accompagnato da una brioche; provate a raccontarla in italiano.

Questo tanto per dire che non riusciremo mai a eliminare del tutto certi vocaboli stranieri (gran parte inglesi, ma anche la Francia non scherza): ormai alcuni sono entrati a far parte integrante della nostra lingua, assieme a numerosissimi altri che, a mio parere, avrebbero dovuto avere diverse accoglienze, ma tant’è.

La lingua è cosa viva e libera, assimila, trasforma, evolve, e ingabbiarla non si può. Se, di tanto in tanto, scappa un vocabolo straniero, ma di quelli compresi anche all’asilo, nessun problema, anzi, qualcuno vi noterebbe addirittura una giusta espansione lessicale: fa più effetto gridare “gol” (scritto e pronunciato così) che “rete” in una scuola materna, e non solo lì. Il problema capita quando, come direbbe Montanelli, si “lardella il discorso” con termini stranieri troppo ricercati, spesso per esibire la propria straordinaria cultura, che spazia oltreconfine, alla grande.

La buona regola di farsi capire va allo sbando, ma molti perseverano, forse senza capire che, più che di empiti mondiali, si tratta di banali provincialismi. Esibire la conoscenza di cui si presume la carenza negli altri, stupire con la parola a effetto straniera, porsi con ciò su un piano di ricercata superiorità, elevarsi sulla massa e, se questa non comprende, non sempre guasta: potrei dilungarmi, ma gli spunti psicologicamente rilevanti della moda esterofila nella parlata (e negli scritti) sono questi. Basterebbero un po’ di buon senso e l’evitare le forzature. Che non esistono nel caso abbia un hobby, porti un foulard e mangi una brioche…