di Vincenzo Andreous

Sono stato invitato a un convegno tenuto in Università, il tema da dibattere “Criminalità minorile “. Molti e autorevoli i relatori, perché capaci di dare risposte a quesiti mai del tutto correttamente formulati.

Devo dire che lo scranno da cui ho parlato è stato davvero inusuale per me, infatti mai come questa volta, nel luogo della ricerca instancabile, sono stato consapevole di non avere nulla da insegnare a nessuno, tanto meno di possedere risposte per le problematiche dibattute.
Ho soltanto il carico della mia esperienza, intesa come somma dei miei tanti errori, esperienza tutta dentro un viaggio che dura da oltre trent’anni.

Da adolescente difficile, a giovane trasgressivo, contrapposto e antagonista, e quando non si possiede capacità di subordinare qualche passione a qualche regola, ciò trascina spesso nella devianza, nell’entrata in un Istituto per minori, dove spesso ci si professionalizza negli atteggiamenti criminogeni, così giunge il carcere per adulti fino ad esserne respirato, fino a sopravvivere in una lucida follia.

Poi fortunatamente arrivando ai giorni nostri, ecco la comunità Casa del Giovane, dove da qualche anno collaboro e svolgo attività di tutor, e di questa grande opportunità sono grato a Don Franco Tassone, per avermi portato con sé e soprattutto per avermi teso una mano.
Attraverso questo viaggio ho potuto notare molte similitudini e molte differenze tra la mia generazione ed i giovani di oggi: allora come oggi tutti nella pancia dello stesso disagio.

Palese il punto di contatto tra passato e presente; se sono assenti i modelli di riferimento, i punti di riferimento certi, perché autorevoli, e dunque accreditati di autorità acquisita sul campo, ad esempio nella famiglia o nella scuola, nell’intorno, non rimane che l’incontro consapevole con i vicoli ciechi, e l’impatto inconsapevole con la violenza della strada e il suo corollario di falsi miti.

La differenza in questo presente sta nel disagio che non colpisce più solo i giovani delle classi meno abbienti, ma anche quelli che provengono da famiglie agiate, dove spesso benestante sta per una condizione di benessere finanziario raggiunto, e non per un raggiungimento di valori introiettati e portati avanti.

E ancora: i guerrieri in erba della mia generazione stavano insieme, in gruppo, formavano una banda di minorenni, perché avevano come nemico da combattere, il mondo degli adulti, dei cosiddetti grandi, che vedevamo intruppati e in fila per tre (come plotoni di esecuzione) nelle loro belle e comode certezze, oggi invece ci si mette insieme, in gruppo, in babygang, per competere e scontrarsi con il gruppo dei pari, per una griffe, per un telefonino, per una banconota da 50 euro, rispetto alla propria da 10 euro.

Così il destino disegna la propria trama, ci si incontra sempre più ai bordi delle vie maestre, fino a dimenticarle, inizia una visione unidimensionale, interpretando la vita come un rettilineo privo di curve, di uscite di emergenza, dove l’inciampo è lì dietro l’angolo, e nel tentativo di esorcizzare le troppe assenze, le lacerazioni, le solitudini, irrompono i rischi estremi, la droga, il reato, e gridare: “ ehi regista, sono stanco, fammi uscire dalla storia “, non è possibile, come non è facile risalire dal baratro in cui si è caduti.

Personalmente ho impiegato decenni per comprendere e rielaborare quel che è stato con occhi e sguardi nuovi, credo che il disagio di per sè sia nella natura delle cose, ciò che è davvero grave è il disagio che ognuno di noi provoca, sottovalutando e svuotando di contenuti se stesso e gli altri, soprattutto chi non ha ancora una personalità matura formata.
Io non so se occorre rivedere o addirittura ribaltare il metodo o l’indagine educativa, se sia più corretto abbassare l’imputabilità a 12 anni, o ridefinire la soglia della maggiore età a 16 anni per alcuni crimini, non ho titoli nè formazione scientifica per sostenerlo, credo però che nei riguardi dei giovanissimi, occorra ritornare a dire e a dare dei no, rispetto ai tanti sì elargiti a piene mani, occorre sul serio farsi carico della difficoltà e della fatica dei no, perché costringe l’adulto a fornire spiegazioni comprensibili, lo obbliga a una comunicazione sensibile, perché empatica e non certamente perché sbilanciata sull’accudente.

Forse occorre anche istituire dei nuovi corsi di formazione post-adolescenziale e genitoriale, affinché si sottolinei l’importanza e la inderogabilità del valore dell’attenzione.
Per questo mi sono permesso di appropriarmi di alcune parole, frasi, importanti, di una docente di questa università, che tanti anni fa ho conosciuto durante una sua visita in un Istituto Penitenziario Lombardo.

Sì, attenzione percepita come speranza dell’attesa, come speranza che se è vero che ancora non è, essa comunque avverrà, se con l’impegno di tutti, e se ciò sarà, la responsabilità che ne consegue sarà un carico condiviso, diverrà davvero una responsabilità operativa secondo coscienza.
E qui mi viene in mente una pedagogia della speranza che è peculiare della Comunità Casa del Giovane, quale eredità del suo fondatore Don Enzo Boschetti, e che Don Franco Tassone porta avanti con forza e coraggio.

Pedagogia della speranza e pedagogia del servire, nel tentativo di “forgiare giovani nuovi, senza più bisogno di nascondersi in comodi rifugi o facili scorciatoie”.
“Crimini e minori “ è stato il tema di questo convegno, così come lo è la preoccupazione dell’intera collettività, eppure nonostante l’esposizione di dati e statistiche, che consentono una lettura coerente dei fenomeni delinquenziali, ho compreso nella Comunità Casa del Giovane quanta importanza abbia una tecnica dialogica che consenta all’altro di accorciare le distanze, l’essere capaci di ascoltare l’altro in se stessi, con sensibilità diverse, interpretazioni diverse, ma giungendo alla stessa finalità.

Quanto da me detto non eleverà il grado di civiltà necessario per migliorare lo stato delle cose, ma forse costringerà noi adulti a non accampare più ulteriori giustificazioni per le cadute e le tragedie dei nostri figli.

Vincenzo Andreous