PRIMA DOMENICA DI AVVENTO – Anno C
Isaia
13,4-11 –Ef 5,1-11 – Lc 21, 5-28
Abbiamo iniziato la nostra prima liturgia d’Avvento
accendendo un cero, su quell’albero spoglio e aspro, che ha sei candele, come
sei sono le domeniche che ci separano dal Natale. Un calendario di luce. Ad
ogni domenica ne accenderemo una, come un passo verso il sorgere del suo giorno.
Avvento è parola che indica il farsi vicino. Tutto si fa più vicino: Dio
all’uomo l’altro a me, io a me stesso. E’ sempre tempo d’Avvento, sempre tempo
di abbreviare distanze.
Risollevatevi, dice il vangelo.
siamo seduti sul ciglio della strada a lasciare che la vita ci scorresse
accanto Quante volte, Signore, ci. Per la vita senza impegno, Kyrie
eleison
Alzate il capo. Quante volte, Signore, di fronte a una
sconfitta ci siamo chiusi nel cinismo o nella tristezza. Per tutti i peccati contro la speranza, Kyrie
Nella perseveranza salverete la vostra vita. Nella
difficoltà soccorrici Signore, nella fatica non ci abbandonare, trasforma la
nostra resa in resistenza, Kyrie eleison
Omelia
Dopo questo vangelo, dopo questo Isaia, provo come un
senso di stordimento. Che cosa risponde il mio cuore a queste letture? Vi
confesso che il cuore è stordito.
Allora mi sono messo a leggere e rileggere il brano,
per capire meglio, più a fondo.
Gli studiosi dicono che il linguaggio di questo
vangelo non è da prendere alla lettera, adotta il genere apocalittico, parla
del mondo che va sottosopra, dello sconvolgimento cosmico, non per raccontare
la fine del mondo ma il significato, il mistero del mondo. Lo fa con lo scopo
di rivelare qualcosa. Su Dio e sull’uomo.
Su Dio prima di tutto. Un Dio che sembra incutere
paura. Ma io so, io sono sicuro, io gioca la mia vita su questo: Gesù è venuto
a rivelare il volto d’amore del Padre. Quello di un Dio che incute paura non è
mai un volto secondo il vangelo, è un volto deformato e perverso.
A Dio non
interessa che l’uomo lo scelga sotto la pressione delle minacce o del terrore.
Perché vuole figli liberi e non servi ricattati. Perché la paura non mi libera
dal male, anzi mi rende succube del male. Dalla paura nasce la religione,
dall’amore invece nasce la fede.
Se portiamo avanti la linea del timore, succede che
più uno ha paura più diventa obbediente. E i migliori cristiani diventerebbero
i più paurosi! I veri credenti sarebbero i terrorizzati. Fine dell’uomo libero.
E del progetto evangelico.
Perché i migliori cristiani non sono quelli che più
temono, sono altri, sono quelli che più assomigliano a Cristo. Quando mai nel
vangelo vediamo Gesù impaurito davanti a Dio, a quel Dio che chiama con il nome
affettuoso dei bambini di casa: abbà,
papà? Dio non fa ricatti.
Io so che queste pagine non vogliono fare paura, non
intendono trasmettere il volto violento del sacro. Ci sono passi della Sacra
Scrittura in cui è rimasta come impigliata la nostra umana violenza, vi si è
incrostata; non tutta la Bibbia è vangelo, “buona notizia”, ci sono passi che vanno
prima depurati e poi accolti.
Io apro la Bibbia e quasi ad ogni pagina leggo di angeli,
di profeti, di pastori, di salmisti che ripetono: non abbiate paura. Qui mi riconosco come credente.
Che cosa mi rivela allora questo vangelo di catastrofi?
Dov’è la sua lieta notizia su Dio e sull’uomo?
Rileggiamolo: quando
sentirete parlare di guerre e di rivoluzioni, voi non vi terrorizzate, non è la
fine.
Poi: sarete
imprigionati, traditi, uccideranno alcuni, sarete odiati, ma nemmeno un capello
del vostro capo andrà perduto.
E ancora: vi
saranno segni nel sole, nella luna, nelle stelle, e sulla terra ansia, angoscia
e paura: ma voi risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è
vicina.
Ad ogni descrizione di dolore, segue un punto di
rottura, dove tutto cambia, un tornante che apre l’orizzonte, la breccia della
speranza.
Al di là di profeti ingannatori, al di là di guerre e
tradimenti, anche quando l’odio sarà dovunque, ecco quella espressione
struggente: “Ma nemmeno un capello del
vostro capo andrà perduto; ribadita da Matteo 10,30 – i capelli del vostro capo sono tutti contati, non abbiate paura.
Ringrazio il Signore perché
nel caos della storia, il suo sguardo è fisso su di me, non giudice che
incombe, ma custode memore di ogni mio frammento.
Verranno giorni nei quali, di quello che
vedete, non sarà lasciata pietra su pietra.
Non c’è nessuna città che sia eterna. Ma l’uomo sì, è eterno.
Non resterà pietra su
pietra, ma l’uomo resterà, frammento su frammento.
A Dio sta a cuore l’uomo
nella sua interezza, Egli ama come innamorato ogni frammento dell’amato, uno
solo dei capelli e tutto il mio mistero racchiuso in una parola: vita. Con la vostra perseveranza salverete
la vostra vita. Salverò la mia vita, il tutto di me, tutto l’umano, tutta
la luce, tutto il respiro di Dio in me.
In questa lotta contro il
male, contro le opere delle tenebre, come
dice Paolo, contro la potenza mortifera e omicida presente nella storia, la
vita si salva con la perseveranza. Non
nel disimpegno, nel chiamarsi fuori, ma nel tenace, umile, quotidiano lavoro
che si prende cura della terra e delle sue ferite, degli uomini e delle loro
lacrime.
Perseveranza
vuol dire: non mi arrendo; nel mondo sembrano vincere i più forti, i più
armati, i più crudeli, ma io non mi arrendo. Anche quando tutto il lottare
contro il male sembra inutile e senza esito, io non mi arrendo.
“Noi camminiamo sempre
sull’orlo di due abissi, del tutto e del nulla” (Turoldo), andiamo tra “resistenza
e resa” (Bonhoeffer), tra vita arresa e vita che invece resiste al male.
Perseveranza
vuol dire: nella storia dettano legge i più ricchi e potenti, ma io non mi
arrendo, perché loro fanno una storia i cui frutti sono di sangue e di terrore;
con Dio invece la storia è liberazione, è alzare il capo, è sollevamento di
umanità abbattuta.
Che bella la conclusione del
vangelo di oggi, quell’ultima riga: risollevatevi,
alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina.
In piedi, a testa alta, occhi
alti, liberi: così vede i discepoli il vangelo.
Sollevate il capo, e guardate
lontano e oltre, perché la realtà non è solo questo che si vede: c’è un
Liberatore, un esperto di vita che viene.
Un verso di Rebora mi sembra riassumere l’avvento, le
cose ultime e le penultime:
Mentre il
creato ascende in Cristo al Padre
nell’arcana
sorte / tutto è doglia del parto:
quanto morir
perché la vita nasca!
Quanto morir perché la vita nasca! Avvento: vita che
nasce, attesa di una nascita, non tanto del Natale di Gesù, ma di ciò che lui è
venuto a portare, di quel mondo nuovo: ma
quanto morir… Siamo nelle doglie del parto. Eppure più le doglie sono
forti più il parto è vicino.
Continua Rebora:
Pur da una
Madre sola, che è divina, / alla luce si vien felicemente:
vita che
l’amor produce in pianto, / e, se anela, quaggiù è poesia;
ma santità
soltanto compie il canto.
Da una Madre sola veniamo
alla luce, Dio come Madre. “Dio altro non fa tutto il giorno che questo: sta
sul lettuccio della partoriente e genera” (Giuliano di Norwich) .
Vita che l’amor produce in pianto. È l’amore che produce vita, ma nel pianto.
Ecco la perseveranza del
cristiano: produrre vita con gesti d’amore, anche quando costa; è questa la sua
santità che compie il canto.
Ogni giorno c’è un mondo che
muore, ma ogni giorno c’è un mondo che nasce. Cadono molti punti di
riferimento, ma ci sono anche sentori di nuove primavere.
Avvento è il tempo della
speranza, di vita che l’amor produce.
Il Signore che è delle cose
l’attesa e il gemito, che viene e vive nel cuore dell’uomo, attento ad ogni
frammento di vita, il Signore che mi conta i capelli in capo è il perché della
nostra perseveranza.
Sorgente della speranza è
l’immagine di un Signore che è qui, mani impigliate nel folto della vita,
attento a tutto ciò che è mio, portatore di libertà, di sguardi alti, di
umanità risollevata. E allora
risollevatevi, alzate il capo, la liberazione è vicina.
Preghiera alla comunione
Mentre il creato ascende in Cristo al Padre
nell’arcana sorte
tutto è doglia del parto:
quanto morir perché la vita nasca!
Pur da una Madre sola, che è divina,
alla luce si vien felicemente:
vita che l’amor produce in pianto,
e, se anela, quaggiù è poesia;
ma santità soltanto compie il canto.
(Clemente Rebora)