dal Messaggero Veneto del 16/02/03
di Sergio Baraldi e Antonio Calabrò

EDITORIALE
LE DEMOCRAZIE E LA GUERRA
di SERGIO BARALDI


Sarebbe un errore da parte di chi governa il paese non tenere conto delle domande di tre milioni di persone che sono scese in piazza contro la guerra in Iraq. O lasciare intendere che chi è andato a marciare sotto la bandiera iridata dei pacifisti, in realtà, faccia il gioco di Saddam Hussein e del suo regime dittatoriale. La mobilitazione dell’opinione pubblica allarmata per ciò che potrebbe succedere in Iraq è crescente, le vie stracolme a Roma ieri testimoniano la montante pressione dei cittadini che temono le conseguenze dell’uso della forza militare.

Nel corteo della capitale, probabilmente, si è assistito anche al battesimo pubblico di una generazione di giovani che si è avvicinata in questo modo alla politica e comunica la paura dell’incertezza sventolando il suo simbolo. Questa opinione pubblica non ha solo il diritto di esprimere le proprie ragioni, ha pure il diritto di ricevere risposte chiare da chi guida l’Italia. E non solo a Roma, ma anche a Londra o in Australia, ovunque in Occidente siano state inscenate grandi manifestazioni contro l’intervento militare.

Un Occidente che, mai come in questa occasione, è apparso diviso nel separare il giusto da ciò che non lo è. E dove i governi sono combattuti tra la decisione di guidare la propria società, esprimendo una leadership, e quella di seguirla, sintonizzandosi con i suoi sentimenti.

Ma un errore altrettanto grave verrebbe commesso dal nuovo pacifismo se non si confrontasse con gli interrogativi che la crisi irachena ha sollevato, se non valutasse le diverse opzioni proposte da partiti, coalizioni e governi al problema del dittatore di Bagdad. Non basta affermare il “no alla guerra senza se e senza ma” per risolvere le questioni tremende aperte l’11 settembre del 2001, quando nell’attacco alle due torri di New York morirono tremila persone. Non si può pensare di archiviare l’urgente bisogno di dare un nuovo ordine al mondo solo con una dichiarazione di fede nella superiorità della pace. Il vasto schieramento contrario alla guerra, segnalato dai sondaggi, non può limitarsi a esprimere la sua protesta, occorre anche analizzare le difficilissime scelte di fronte alle quali si trova la nostra società.

E immaginare una risposta. Solo in questo modo, chi desidera la pace costruisce le condizioni per mantenerla e acquista la credibilità necessaria per indicare una diversa prospettiva.
Il primo interrogativo, forse il più urgente, riguarda la comprensione dell’emergenza che ci troviamo ad affrontare: l’attacco all’America ha segnato l’inizio del nuovo secolo e l’emergere di un disordine mondiale che, prima di quella data, sembrava circoscritto ad alcune aree del pianeta. Il Novecento si era chiuso con la vittoria delle democrazie sul comunismo.

Ma ora le democrazie sono interpellate dalla sfida del terrorismo religioso che ha colpito New York come simbolo ed epicentro dell’Occidente. Quell’attentato ha insanguinato il territorio americano, ma è stato condotto contro le nostre democrazie liberali. L’Europa non può dimenticarsene tanto in fretta. E le democrazie, per tutelare se stesse e i loro cittadini, devono potersi difendere. La questione, semmai, è come possiamo salvaguardarci. La risposta è che non possono farlo rinnegando se stesse e il loro sistema di valori. Il prezzo che pagherebbero sarebbe alto, la conseguenza un probabile arretramento civile. Le democrazie possono tutelarsi solo nel rispetto della legge internazionale che chiama in causa la responsabilità dell’Onu. Una guerra che non passasse attraverso una risoluzione delle Nazioni Unite potrebbe lacerare in profondità l’Occidente.

La pretesa degli Usa di decidere da soli il colpo da infliggere a Saddam rischia di creare un precedente che può ferire il diritto, il pilastro sul quale poggiano le democrazie occidentali. Un singolo paese o un gruppo limitato di paesi potrebbe ritenersi, in qualsiasi momento e per qualsiasi ragione, autorizzato a muovere una guerra. Per evitarlo, occorre riconoscere alle Nazioni Unite la centralità nelle scelte della comunità internazionale. Senza la legittimazione dell’Onu, come ha rimarcato il presidente Ciampi, il mondo può smarrire il criterio cardinale nella gestione dei conflitti.

Se gli Usa agissero da soli sanzionerebbero la crisi dell’Onu come arena per regolare i contrasti internazionali. Ma assisteremmo, probabilmente, anche allo svuotamento di significato della Nato come alleanza occidentale di difesa. E’ vero che l’Onu si è spesso dimostrata un’istituzione debole e insufficiente nel contenere gli arbitri, ma è l’unico strumento internazionale di mediazione, l’unico limite alla sovranità degli Stati e agli eccessi di potere.

Un limite da preservare in un mondo divenuto unipolare, con una sola superpotenza egemone in grado di condurre e vincere una guerra in qualunque parte del globo. E dove non esiste più il rigido vincolo dell’ordine bipolare Usa-Urss. E’ questo il punto debole della dottrina di Bush. Sostenere l’unilateralismo americano, cioè il diritto statunitense di sconfiggere “i nemici della democrazia” e di vendicarsi senza alcun mandato internazionale indebolisce l’Occidente dall’interno, scuote la sua cultura di fondo. Diventerebbe più precario il legame tra Usa ed Europa spingendo il Vecchio continente o parte di esso a distanziarsi dagli Stati Uniti. Si tratta di una frattura da scongiurare anche se l’America ha accumulato una tale potenza da essere in grado di perseguire in modo autonomo qualsiasi disegno globale. Una superpotenza che si ritenga sciolta dagli obblighi di una visione multilaterale dei rapporti internazionali, un gigante che non avverte i doveri del diritto internazionale aprirebbe una generale prospettiva d’incertezza.

Tocca all’Europa, per ragioni di vicinanza storica, civile, politica, convincere gli Usa a non costituire proprio loro un fattore di instabilità, a rendersi conto che la loro posizione di potenza dominante suscita delle preoccupazioni nelle società occidentali. Solo l’Europa può persuadere gli Usa che i rischi del fare da soli sono alti, che l’insicurezza potrebbe accrescersi invece di ridursi. Del resto, gli Usa hanno conquistato la leadership mondiale grazie anche alla loro capacità di sapere sempre costruire un’alleanza con l’Europa.

L’America migliore ha affermato i propri diritti e interessi senza dimenticare che l’Occidente è un sistema di valori, un’identità comune, una cultura e un sistema politico condiviso, la democrazia. Dopo la fine della guerra fredda e la caduta del comunismo, l’Occidente non può ridursi alla logica militare.

Molti interrogativi, dunque, chiamano in causa l’Europa e la sua capacità di agire come soggetto globale vicino agli Usa. La progressiva crescita dei paesi dell’Unione, dal dopoguerra a oggi, è avvenuta in un quadro di civilizzazione euroatlantica che ci ha permesso di avere istituzioni liberali e di godere di una crescita economica sostenuta.

E’ questo l’orizzonte europeo e, al di fuori di questo, è difficile immaginare una solitaria prospettiva del nostro continente. Ciò significa che il solco scavato tra Francia e Germania da una parte, Italia, Inghilterra e Spagna dall’altra deve essere in qualche modo ricomposto. Che occorre saper gettare un ponte tra le due Europe salvo perdere tutti in autorità. Dopo avere contribuito a incrinare la comunità, anche il governo Berlusconi dovrebbe riconsiderare il proprio ruolo e lavorare con maggior convinzione per ritrovare un equilibrio e un minimo comun denominatore. Siamo uno dei paesi fondatori, a luglio scatterà il semestre della presidenza italiana, l’interesse nazionale non è quello di aggravare lo strappo e indebolire i vincoli comunitari.

Ma questa presa di coscienza dovrebbe spingere la nostra società a fare i conti con la natura dispotica del regime iracheno e i crimini dei quali si è macchiato. Non si può accettare che il ministro degli esteri Tareq Aziz in visita in Italia paragoni Bush a Hitler senza una adeguata reazione da parte del mondo politico italiano. Dovremmo chiederci se nella nostra società permane la consapevolezza che, dopo New York, la violenza antioccidentale del terrorismo fondamentalista costituisca una minaccia per tutti. Sono gli interrogativi ai quali il pacifismo non può rispondere con mezze verità.

La generosità con la quale si vogliono evitare una guerra e i suoi lutti non può disgiungersi da un chiaro no al terrorismo. E un giudizio che rilevi le contraddizioni della politica di Bush non può sfociare in un nuovo antiamericanismo ideologico. Forse gli Usa pensano una soluzione che non ci convince del tutto, ma sbaglieremmo a non accorgerci che l’angoscia che attraversa l’America per la violenza dell’11 settembre non è diversa da quella che ha spinto milioni di cittadini a riversarsi nelle strade di Roma e nelle piazze d’Europa.
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GLI USA E LA CRISI

LA FRAGILITA’ DEI POTENTI
di ANTONIO CALABRO’


La guerra aiuta l’economia? Sì, secondo certi luoghi comuni, confortati da alcune esperienze del passato (la guerra per liberare il Kuwait, per fare solo un esempio recente).
No, invece, quando non si riesce a sgombrare il campo dalle incertezze e quando gli elementi di crisi hanno radici in problemi ben diversi da quelli che un conflitto, pur vittorioso, potrebbe aiutare a risolvere.

Come adesso, per i venti di guerra in Iraq.
I mercati finanziari internazionali, in tempi così controversi, sono quanto mai instabili. Sono definiti volatili, nel gergo tecnico delle Borse. Ma con una tendenza di fondo: sembrano temere la guerra e manifestare pur caute approvazioni tutte le volte in cui le vie della politica e della diplomazia segnano un piccolo successo (venerdì, dopo la relazione degli ispettori al consiglio di sicurezza dell’Onu, Wall Street ha chiuso con un netto rialzo). Per essere ancora più chiari, negli ambienti della finanza ci si preoccupa non tanto di una guerra, quanto del fatto che gli Usa possano decidere di farla da soli, fuori dal consenso legittimante dell’Onu, contro il parere di grandi potenze come Francia, Germania, Russia e Cina e sostenuti soltanto dalla Gran Bretagna e da un drappello di altri paesi alleati fedelissimi.
La superpotenza solitaria, infatti, è considerata tutto sommato fragile. Certamente vittoriosa in Iraq.

Ma costretta a farsi carico, da sola o quasi, del lungo, rischioso e costoso processo di mantenimento del nuovo regime iracheno dopo Saddam, di ricostruzione del paese, di controllo dei conflitti interni fra etnie e religioni e di protezione dei pozzi petroliferi. Gli Usa, infatti, potranno avere il vantaggio del dominio delle risorse petrolifere irachene, un elemento strategico di sicurezza e di stabilità se mai i conflitti per la successione in Arabia Saudita rendessero quel paese e quelle riserve meno accessibili. E potranno godere, a guerra finita, dei vantaggi di una riduzione del prezzo del barile (giù sino a 20 dollari, prevedono gli ottimisti, ma senza che nulla conforti davvero un simile scenario, mentre le previsioni più negative parlano invece di un forte rialzo, dai 37 dollari di adesso agli oltre 40 o perfino agli 80 dollari profetizzati dai catastrofisti).

Ma l’economia non può essere riassunta solo nella dimensione dell’energia. Altre questioni sono in primo piano. Dalle relazioni commerciali alla stabilità degli equilibri internazionali che aiutano i buoni affari. Per finire con l’essenziale questione della sicurezza: un’opportunità se ben giocata, ma un forte freno alla crescita, se non garantita. E gli Usa, solitari vincitori in Iraq, potrebbero ritrovarsi esposti a tutte proteste, le ritorsioni, le ostilità anti-americane, che si radicalizzerebbero nel mondo islamico.

Con un pericolo ancor più grande e temibile: l’essere – sempre solitari – al centro del mirino degli atti di terrorismo.
La domanda vera che circola negli ambienti finanziari più lungimiranti, insomma, non è solo “quanto costa la guerra contro l’Iraq”, ma soprattutto “quanto costerà la pace?”. E la risposta – se gli Usa faranno tutto fuori dal contesto delle regole internazionali, prescindendo dall’Onu o addirittura contro le sue indicazioni – è profondamente carica di incertezze di lungo periodo. Proprio quelle che mercati e investitori non amano.
Che la guerra non abbia alcun effetto positivo sulla ripresa economica lo pensano i responsabili della Banca centrale europea.

E ne sono tutto sommato convinti anche gli uomini della Federal reserve negli Usa. Giovedì, pur con tutte le cautele e le perifrasi del caso, era stato proprio il presidente della Fed Alan Greenspan a esprimere dubbi che non sono affatto piaciuti alla Casa Bianca, ma che traducono i timori diffusi tra gli operatori economici e i consumatori americani (l’indice di fiducia misurato a metà febbraio è sceso molto più nettamente delle previsioni degli analisti): l’economia Usa è senza bussola e non sarà certo la guerra a darle una direzione.

La recessione americana, infatti, è finita. E l’economia ha ripreso a crescere, con ritmi più intensi di quelli che si registrano nella vecchia e affaticata economia europea. Ma è una crescita comunque lenta, impacciata, incerta. Dipende poco, infatti, dagli investimenti e molto dai consumi (con pericoli di un brusco stop, come fa temere la caduta di fiducia di cui abbiamo appena detto). Risente degli investimenti pubblici (compresi quelli per lo sforzo bellico) che pesano sempre più sul deficit del bilancio federale (uno dei veri nodi irrisolti della crisi). Reagisce debolmente agli stimoli dei pur massicci sgravi fiscali decisi dal presidente Bush (come nota criticamente la Fed, suscitando ancora una volta l’irritazione della Casa Bianca). E continua a soffrire di un vecchio e irrisolto elemento di squilibrio: il fortissimo deficit della bilancia commerciale che, data la debolezza del dollaro, non è più adeguatamente compensata dall’avanzo della bilancia valutaria.

La guerra non risolverà, naturalmente, nessuna di tali questioni. Anzi, probabilmente ne aggraverà alcune (il deficit pubblico, per il carico del costo bellico e dei processi di ricostruzione e di finanziamento d’una lunga missione di presidio in Iraq).


Senza contare che nuove nubi s’affacciano all’orizzonte dell’economia: l’apertura di contrasti economici tra Usa ed Europa come conseguenza delle tensioni di politica militare e internazionale (non una vera e propria guerra commerciale, ma il cumulo di antiche e irrisolte controversie e nuove reciproche scelte di boicottaggio dei prodotti americani in Francia e Germania o francesi e tedeschi negli Usa, come già notano le cronache dei giornali su entrambe le sponde dell’Atlantico).

Il clima di guerra, in ogni caso, mette in crisi tutto il clima degli scambi internazionali. E fa da freno deciso a un’eventuale ripresa. Con gravi danni per tutti. A Washington e a Parigi. A Londra e a Berlino. Ma anche a Madrid e a Roma. Anche questa, d’altronde, è la globalizzazione, no?

dal Messaggero Veneto del 17/02/03

L’ONU E L’IRAQ

ALTERNATIVA ALLE ARMI
di ALCIDE PAOLINI

Alla pace dunque, oltre che all’Iraq, gli Stati Uniti hanno concesso altre due settimane di sopravvivenza.
Anche se in realtà nessuno spiega che cosa dovrebbe accadere in questo lasso di tempo, affinché possa durare oltre quella data. Perché se nel frattempo gli ispettori riusciranno finalmente a scoprire qualche arma di distruzione di massa, la guerra è assicurata; altrimenti pure, poiché non si capisce cos’altro potrebbe fermarla. Salvo immaginare una dipartita spontanea di Saddam dal suo paese, che è un’ipotesi assai improbabile.
Intanto, però, la situazione si sta surriscaldando, soprattutto all’interno degli stessi paesi occidentali, i quali, pur condannando ovviamente il regime di Saddam, sono divisi sull’opportunità della guerra. Infatti, nonostante la contrarietà a essa della maggioranza di tutte le opinioni pubbliche occidentali (confermate da una manifestazione mondiale, quale mai si era vista), i governi favorevoli all’intervento si sono espressi nel modo più sprezzante nei confronti di quelli contrari, popoli compresi.

Quello che sconcerta e preoccupa di questa contesa è il fatto che nessuno sembra disposto a considerare le opinioni avverse come convinzioni sincere, non legate a interessi politici o ideologici o economici e pertanto in perfetta buona fede e degne di rispetto. Di qui il costituirsi di posizioni preconcette, tese alla demonizzazione delle altre. Non considerando che su un problema tanto serio nessuno può arrogarsi il diritto di possedere il dono dell’infallibilità, di conseguenza sarebbe giusto accogliere le opinioni avverse senza ingiustificati livori, sostituendo la tendenza alla delegittimazione delle idee altrui con una ben più sana dialettica.

Insomma, non sarebbe più giusto accettare un ragionamento del tipo: “Io credo fermamente che la mia soluzione sia la più vantaggiosa per tutti, compresi (nel caso specifico) gli innocenti che non hanno voce in capitolo. Senza per questo disprezzare la tua, né considerarla per forza interessata”? E non sarebbe ragionevole, altresì, evitare le insinuazioni o le accuse più ingiuste, come, per esempio, quella ricattatoria, in base alla quale i pacifisti, ingrati, avrebbero il dovere morale di appoggiare in maniera incondizionata le decisioni degli Usa, perché ci hanno salvati dal nazismo? Ricatto che impedirebbe implicitamente ai pacifisti ogni possibilità di avere un’opinione autonoma, anche se la considerassero vantaggiosa non solo per loro, ma anche per gli stessi americani. Pertanto, in casi difficili e rischiosi come questi, sarebbe importante che nessuno si innamorasse della propria opinione, né temesse di perdere la faccia a ricredersi.

L’unica accusa, forse, sulla quale chi è a favore della pace dovrebbe riflettere in modo più attento è semmai quella di accontentarsi troppo supinamente dello statu quo, che si configura come una limitazione nella lotta contro Saddam. Mentre sarebbe più costruttivo cercare di assumere un atteggiamento propositivo, che contempli prima di tutto la ricerca di un’alternativa alla guerra. Anche perché non ci si può aspettare che lo facciano gli americani, i quali, avendo già scelto il conflitto, si guardano bene dal pensarci.

Se i pacifisti, perciò, si preoccupassero, impegnandosi seriamente, di trovare soluzioni alternative da sottoporre al rais, con la precisazione che o accetta una di esse o è davvero la guerra, è possibile che, proprio perché fatte dai pacifisti, anche il satrapo Saddam finisca per pensarci più volte prima di rifiutarle. Si passerebbe in tal modo la palla al dittatore.

Alcune proposte, del resto, sono già sul tappeto, ma se ne possono fare delle altre. Per esempio rendere i controlli degli ispettori sempre più fitti e stabili, per un congruo periodo di tempo. Oppure prospettare nuove elezioni sotto l’egida dell’Onu. Sarebbe anche un modo per tenere il rais costantemente sotto scacco. Ma sarebbe altresì opportuno ipotizzare contemporaneamente una qualche forma di aiuto concreto che alletti la popolazione: sovvenzioni e aiuti.

Teniamo presente che fino a qualche secolo fa, e anche meno, erano diversi i paesi nelle stesse condizioni attuali dell’Iraq. Eppure si sono democratizzati. Succederà anche a coloro che sono rimasti in balia di vecchie dittature personali. L’Iraq potrebbe essere uno di questi paesi prima di altri, perché sarà pure sotto la dittatura di un feroce sanguinario, ma non è un fanatico ideologico, come non lo è gran parte della popolazione. Teniamone conto.

Infine, una provocazione agli antipacifisti (non voglio pensare che il contrario di pacifista sia guerrafondaio): ma se al posto di Bush ci fosse stato Clinton, è ipotizzabile o no che le cose sarebbero potute andare diversamente e non ci sarebbero state queste accuse ad alcuni paesi occidentali di antiamericanismo? Ai lettori la risposta.
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