dal Messaggero Veneto del 21/01/03
di Angelo Bolaffi
GLI USA E LA GUERRA
UN’ALTRA NORMANDIA
di ANGELO BOLAFFI
C’è molto di vero nelle parole pronunciate ieri da Romano Prodi: l’Europa se fosse unita davvero potrebbe oggi avere un ruolo di rilievo nella politica internazionale facendo pesare la sua ostilità all’opzione bellica opponendo il suo approccio multilateralista al nuovo unilateralismo dell’amministrazione americana.
E questo tanto più proprio perché dinanzi al tragico dilemma tra guerra e pace e all’interrogativo di quale sia la strategia più opportuna nei confronti dell’Iraq di Saddam Hussein, l’Occidente inteso non solo quale alleanza geopolitica e militare, ma come espressione di comuni valori politici e spirituali tra le due sponde dell’Atlantico, sta rivelando profonde e pericolose crepe.
Nonostante le dichiarazioni di circostanza di leader politici e militari tese a sdrammatizzare e a rassicurare, è al momento impossibile prevedere se e come quella che era stata ideata nel 1941 in un incontro tra Roosevelt e Churchill quale comunità militare e unione di civiltà per resistere alla guerra del nazismo e del fascismo e poi, durante la guerra fredda, aveva assunto la funzione di contenimento dell’espansionismo sovietico potrà in futuro ritrovare nuovo fondamento e senso.
Sta di fatto che mai come in questi giorni dalla fine del secondo conflitto mondiale tanto profonda e polemica appare la divergenza etica e culturale, oltre che politica e militare, che divide l’Europa dall’America. Di questa realtà carica di imprevedibili conseguenze anche immediate sull’evoluzione della crisi medio-orientale i commentatori suggeriscono tante e spesso contraddittorie spiegazioni.
Accanto a quelle che focalizzano motivi più eminentemente strategici o privilegiano ragioni economiche e politiche, a cominciare dalla questione del petrolio sino alle divergenze su una possibile soluzione del conflitto israelo-palestinese, probabilmente in questa divaricazione di giudizio circa la natura del pericolo Saddam e sulla liceità morale dell’opzione bellica ha sicuramente un ruolo decisivo la differente percezione che la parola guerra suscita nell’opinione pubblica europea rispetto a quella degli Stati Uniti.
Certo: come confermano le manifestazioni del fine settimana svoltesi a Washington e in California, anche in America sta crescendo l’opposizione alla guerra, ma si tratta, almeno per ora, di ristrette minoranze attive soprattutto nelle grandi città della costa orientale e di quella del Pacifico.
L’America profonda, quella del Middle West e del Sud, la vede in modo differente rispetto all’Europa non solamente per quello che riguarda la pena di morte, ma anche su un’eventuale azione militare contro l’Iraq. Evidentemente non si tratta solo di una diversità di stati d’animo o di una sensibilità più o meno spiccata sul valore della vita umana: il fatto è che nell’immaginario collettivo americano la guerra suscita passioni e timori molto lontani e differenti rispetto a quello che accade nel vecchio continente. Questo in primo luogo per ragioni storiche.
Per l’America la parola guerra si associa quasi sempre a un’azione militare compiuta in un territorio “lontano da casa” in nome di ragioni geostrategiche ben precise: solo tra il 1800 e il 1934, per esempio, i marines americani sono sbarcati ben 180 volte in paesi stranieri, come ha di recente calcolato lo storico conservatore Max Boot nel suo libro “The savage wars of peace”. Interventi questi che hanno rappresentato un preludio di tutta quella serie di operazioni armate che nei decenni successivi gli Stati Uniti hanno attuato in diverse regioni del mondo per tenere sotto controllo quelli che gli strateghi del Pentagono definiscono «conflitti a bassa intensità».
Basti pensare che tutti e tre gli ultimi presidenti che hanno preceduto l’attuale George W. Bush, Reagan con lo sbarco in Libano, Bush padre con la Desert storm in Iraq e poi Clinton in Bosnia e poi contro la ex Jugoslavia, hanno ordinato interventi militari. E ancor prima che la carriera politica di Jimmy Carter, oggi premio Nobel per la pace, fosse stata distrutta dal fallimento di un intervento militare in Iran. Da questo punto di vista, e cioè sulla liceità del ricorso alla guerra, non c’è differenza tra democratici e conservatori.
Mentre, ovviamente, resta profonda la distanza ( e lo sono anche le conseguenze) tra la scelta di un obiettivo e quella di un altro. Insomma, nel definire la propria linea di condotta nei riguardi dell’America, l’Europa deve muovere dalla constatazione che per gli Stati Uniti la guerra è un’opzione di routine piuttosto che una scelta esistenziale.
E questo per una ragione molto precisa: con l’eccezione dell’attacco aereo portato di sorpresa dai giapponesi a Pearl Harbor nel 1941 e, mezzo secolo più tardi, dell’attentato terroristico contro le torri gemelle di Manhattan, non a caso i due episodi vengono spesso evocati simultaneamente dalla pubblicistica americana, gli Stati Uniti percepiscono la guerra come qualcosa che accade da qualche parte “oltremare” e che tocca a degli specialisti portare a termine.
Anche alla tragedia del secondo conflitto mondiale a differenza dall’Europa ( come pure dal Giappone) l’America associa ricordi e immagini assai differenti: non la memoria di sofferenze indicibili e di orrori infiniti che portano il nome di Coventry e Dresda, di Cefalonia, della ritirata di Russia o di Stalingrado, dell’infamia della Shoah e dei lutti delle guerre civili fratricide, della fame di milioni di uomini, degli orfani, delle donne violentate e delle città rase al suolo.
Per l’America, che pure ha pagato un tributo di sangue elevatissimo senza il quale l’Europa non sarebbe riuscita a liberarsi dai propri incubi, la seconda guerra mondiale è stata una grande campagna, conclusasi ovviamente con una sua vittoria, intrapresa per la difesa della libertà del mondo. Basta aver visto le immagini del film di Spielberg “Salvate il soldato Ryan” per comprendere tutto questo.
Poi ci sono state la tragedia e la sconfitta dell’intervento in Vietnam. Non è per questo un caso che quanti oggi, e sono una minoranza, si oppongono a un intervento militare in Iraq evocano lo spettro della risaie del Sud-Est asiatico. I favorevoli, invece, richiamano alla memoria l’epopea dello sbarco in Normandia. Solo quando avrà termine quella che appare come una sempre più probabile seconda Tempesta del deserto sapremo chi avrà visto giusto.
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