dal Messaggero Veneto del 24/12/02

Mario Rigoni Stern, Mario Luzi, Franco Cardini, Giuseppe Pontiggia e Gianfranco Ravasi si interrogano su come è cambiato il significato della festa della cristianità e sui concetti di pace e di guerra
I clamori del consumismo sembrano avere la meglio sui valori
Sentimenti e timori alla vigilia del giorno più amato


Mario Rigoni Stern, autore di numerosi romanzi di successo, non ha dubbi nel dire che «per me il Natale sopravvive tra i poveri perché tra i ricchi non ha senso. Lo sente ancora la gente che vive in periferia e quella che vive nei paesi di montagna, lontana dai media, dal mondo convulso della pubblicità. Non lo sentono quelli delle boutique, degli spettacoli cinematografici, delle sfilate di moda e di tutti questi tipi d’attività: per loro il Natale non c’è perché non hanno lo spirito del Natale che è di gioia e di confronto con il mondo. La tradizione dice che Cristo è nato in una stalla, ma oggi, nel mondo occidentale, siamo molto lontani da questo spirito d’assoluta povertà».

«A parte le minacce di guerra – continua – passerò il Natale a casa mia, ad Asiago, con la famiglia, senza particolari problemi e in assoluta tranquillità».
E, infine: «Le cose che amareggiano, specialmente chi le guerre le ha vissute, è la facilità con cui si parla di aerei, di bombe atomiche, di bombardamenti, di tutte queste disgrazie che investono gli uomini.
Ma non ne abbiamo già avuto abbastanza? Cosa vogliono ancora? Agli uomini che stanno in alto e che in qualche modo conducono i destini del pianeta, raccomanderei di spegnere la televisione nel giorno di Natale e aprire il Vangelo che racconta la nascita di Cristo. Spero che nella profonda umiltà di una spiritualità che si fa carne per redimere i peccati del mondo, possano trovare la giusta ispirazione per la pace».

Nelle risposte dello storico medievalista Franco Cardini, la nota polemica è dominante: «Ormai – dice – siamo attaccati ai gusci, e ci sarà la solita dolciastra retorica del Natale buono, della festa dei poveri; per il resto mi pare ci sia pochissimo. Il livello di spiritualità dell’Occidente mi sembra bene illustrato dall’ultima uscita del Papa, che parla di un Dio disgustato. Metà del ventesimo secolo è stato segnato dal riciclaggio di San Nicola, l’ometto vestito con i colori della Coca Cola, e mi pare che adesso continui in bombe. Di spirituale non vedo nulla all’orizzonte. Solo preoccupazione perché i consumi stanno calando, e solite storie sul fatto che spenderemo il 12% meno dell’anno scorso in acquisto di derrate alimentari di lusso. Il quadro mi sembra malinconico».
E continua: «Vivrò il Natale con lo spirito di una persona profondamente disorientata, abituata a subire la retorica, spesso anche aprioristica, del pacifismo a 360 gradi dei governi: pensavo che qualcosa fosse passato sotto la pelle della gente, e mi fa raccapriccio che dietro l’idea di un grande capo di Stato che minaccia addirittura l’uso della forza nucleare, ci sia la volgare e pecoresca acquiescenza delle opinioni pubbliche di tutto il mondo. Trovo questa situazione tragica».

«Se non rinsaviamo rapidamente, credo che si innescherà una serie di reazioni a catena, con operazioni militari, per delle ragioni economiche e produttivistiche di controllo dell’energia. Credo che alla guerra santa e allo scontro fra civiltà, non creda più nessuno, tanto che non ne parlano più nemmeno gli affezionati alle retoriche di turno. Dal processo di risposte asimmetriche per il dilatarsi della minaccia terroristica, dal peggioramento della situazione ambientale e dal pericolo di destabilizzazione, si prospetta un futuro caratterizzato da insicurezza e angoscia».

Lo scrittore comasco Giuseppe Pontiggia, lascia scorrere, invece, nelle sue parole una nota di speranza: «Direi che lo spirito del Natale sopravvive per una frangia di credenti. Non direi neanche tutti i credenti, perché il consumismo ha finito per invadere anche uno spazio che prima era riservato all’interiorità e alla religiosità dell’evento. Dello spirito del Natale si è un po’ attenuato il significato religioso, ma non si è perso; per molte persone può essere l’occasione di un incontro in chiave positiva, sia pure in termini labili e a volte superficiali, perché è una festa che collega l’immagine del divino a una nascita che poi diventa rinascita. Il Natale non ha perso il suo significato tradizionale di ricostituzione dell’unità familiare, dei rapporti solidali fra le persone, e non va disprezzata né sottovalutata questa dimensione, che non è più profondamente religiosa, ma conserva una densità umana utile a riannodare, sia pure transitoriamente, i rapporti».

«Personalmente – continua – vivo il Natale abbastanza festosamente attraverso mio figlio perché, nonostante non sia più ragazzo, ha un’attesa dei doni ancora festosa. Ma vedo il Natale anche come un periodo caotico e stressante nei giorni immediatamente precedenti, e poi come intervallo di quiete, di riposo: ho in mente di leggere dei libri che mi danno felicità di percorsi e d’avventure».
Pontiggia conclude: «Sarà un dopo Natale drammatico perché sono in corso guerre e tragedie collettive che nascono da interessi economici prevaricanti. Sono guerre squallide. Le guerre sono sempre terribili, ma quando la loro matrice è legata al potere economico, sono ancora più inaccettabili».

Il poeta Mario Luzi, che da poco ha compiuto 88 anni, nonostante la sua grande fede, è un po’ sconsolato: «Lo spirito del Natale sopravvive in qualche nucleo familiare, ma non come sentimento generale. È paganizzato, materializzato, consumisticizzato: nei preparativi del Natale c’è la dimostrazione della involuzione della nostra civiltà che è tutta nelle cose e niente nelle ragioni e nelle cause».
E continua: «Per me è un Natale triste, sia per il panorama nazionale scoraggiante e sconfortante, sia come coscienza di pericolo, per la guerra imminente che rischia di ricacciare il mondo in un’avventura diabolica. Ho anche ragioni familiari, intime perché questo Natale sia poco felice. Ho perduto da poco l’unica sorella che avevo e sono ancora depresso, malinconico e addolorato».
E conclude: «Il mondo forse deve passare attraverso qualche altra prova. C’è forse un’altra fase da inaugurare, antropologica oltre che politica. Ci aspettano giorni molto duri. Si vede che è in atto qualcosa di planetario, come l’emigrazione: tutta l’umanità sta cercando di cambiare stato, di trasformare il suo rapporto con la terra. Questo non vuol dire che il mondo peggiorerà: forse migliorerà, e anche l’uomo forse cambierà, anche se in non sono molto ottimista. Tutti i progressi tecnici, le scienze della comunicazione, stanno trasformando anche la mente dell’uomo. Io per fortuna ho il senso di una teologia, di un fine superiore e quindi vivo queste transizioni con un’aspettativa di speranza».

Monsignor Gianfranco Ravasi, sacerdote e membro della Pontificia commissione biblica e docente d’Esegesi biblica, elenca numerose difficoltà: «Nei confronti dello spirito del Natale è continuamente in agguato una sorta d’attacco sviluppato sulla base di un equivoco: l’attacco è organizzato dal consumismo, da tutta la retorica e l’enfasi di stelline, luci al neon, regali, pastorellerie, zampogne, neve e quant’altro. Parlavo però di un equivoco, perché si è convinti che il Natale, sostanzialmente, sia una festa per i bambini: una festa per la nostra infanzia, del ricordo per noi adulti di un passato simile un po’ a delle foglie morte su una palude, che però sempre riguardiamo con una certa tenerezza. La lettura dei testi che sono alla base del Natale, i 120 versetti dei primi due capitoli di Matteo e di Luca, sono altamente qualificati dal punto di vista teologico, hanno una forte carica spirituale ed esistenziale. Al punto tale che la figura del Bambino che entra in scena, è una figura tutt’altro che zuccherosa, delicata, sentimentale o misticheggiante. Appena nato, il bambino diventa un profugo costretto a fuggire in Egitto per evitare l’alito caldo della polizia d’Erode. L’arroganza e la prevaricazione del potere entrano subito in scena. Questi testi dovrebbero scuotere le coscienze, inquietare la nostra superficialità e banalità; perciò credo che il compito della religione cristiana dovrebbe essere quello di riportare la festa del Natale, senza disprezzare il sentimento, ai testi fondanti, e quindi alla vera matrice«.

«Dopo quella frase del Papa su un Dio un po’ disgustato dell’umanità – continua Ravasi – vedendo quanti e quali delitti sa compiere con la sua libertà che Dio rispetta, credo che si possa esprimere una duplice sensazione: da un lato dobbiamo dire che viviamo un Natale nell’incubo di una guerra, sicuramente voluta dalla superpotenza mondiale, e quindi per molti versi difficilmente osteggiabile. Abbiamo questa sensazione primaria che si allarga nelle difficoltà quotidiane di un mondo con un certo affanno; dall’altra parte, però, non bisogna mai perdere la speranza, perché questo Dio che giudica l’umanità è un Dio che non abbandona l’uomo a se stesso. Per il credente, l’ultima parola non è mai quella della disperazione. L’estuario della nostra vita non è nel vuoto, ma con una meta, con un senso, anche se camminiamo spesso sotto un cielo che è tenebroso. La paura e la speranza, sono due poli antitetici, però possono dare origine alla possibilità della nostra vita che ha in se una dimensione d’interrogazione, la paura, e dall’altra parte una dimensione di fiducia e di certezza.

Per concludere, «ci aspetta un dopo Natale che in sé avrà tante difficoltà e tante sofferenze. Guardando il panorama del mondo, la globalizzazione, tanto celebrata e osteggiata al tempo stesso, lascia dietro di se infinite vergogne, infinite infamie. Non ci aspettano giorni radiosi e bisognerà ancora faticare per cambiare il mondo. Mai come in questi ultimi tempi sento che l’umanità ascolta con intensità la parola che ci riporta alle domande fondamentali, quelle che chiamerei le verità ultime, cioè il bene e il male, la vita e la morte, la giustizia e la violenza, la guerra e la pace, l’amore e l’odio. Questa umanità così distratta, superficiale, banale, becera in qualche caso, violenta o quasi criminale, che sembra abbia solo il desiderio di seminare terrore, ha sempre dentro di se una speranza. L’uomo, pur ridotto a materiale di consumo e ai modi di vita imposti da quel mezzo egemone della comunicazione che è la televisione, è pur sempre colui che supera infinitamente se stesso, che tende per sua natura verso la grandezza».
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