Invaso dalla paura degli altri, il timido manca di agilità e di sicurezza nei suoi rapporti con essi. Rischia di diventare un disadattato se i suoi timori sono troppo forti.
Il pericolo è di cadere nel complesso dell’insuccesso. Egli sprofonda in questa disposizione penosa dove il campo di coscienza si riduce, dove delle zone cerebrali talvolta estese si bloccano e fermano l’esteriorizzazione dell’Io. Il timido evita di affrontare la realtà; diventa velleitario e rischia di far fallire la sua vita. La timidezza coincide molto spesso con delle facoltà intellettuali notevoli di cui il timido si serve male o poco in certe situazioni. Anche la sua attività si riduce, perché egli fugge le circostanze che scatenano l’accesso di timidezza: crisi umiliante in cui ci si confonde, in cui talvolta si è resi incapaci di profferire un suono, o che provoca il farfugliamento o il balbettamento. Distinguiamo le timidezze costituzionali, innate, e le timidezze acquisite, provocate e mantenute da numerosi fattori psicologici accumulati e ripetuti. Il timido ha paura dell’ironia che ridicolizza e sminuisce l’oggetto di esame. Paura dell’incomprensione contro la quale urta spesso, in particolare quando gli si consigliano degli sforzi volontari per vincere il suo stato, mentre tutti i meccanismi del suo accesso di timidezza giocano contro di lui, secondo la legge dello sforzo convertito, con tanta maggiore intensità quanto più egli moltiplica i suoi sforzi per vincerli, fermarli. Il timido ha in effetti degli accessi di inibizione sociale, cioè di blocco dell’energia necessaria al compimento di un atto sociale; la comunicazione, l’incontro, il dialogo con un’altra persona. E quando l’energia è bloccata, l’ansietà e l’impulsività compaiono; di qui le gaffes, parole o atti intempestivi, malaccorti, e le oscure rimuginazioni che fanno loro seguito. Molti timidi sono perfezionisti. Essi provano un bisogno permanente di fare tutto il meglio possibile. Questa ricerca di perfezione li affatica molto, perché si accompagna ad ossessioni diffuse o forti, o a paura di agire male. Alla base del perfezionismo esiste una sensazione di inferiorità e un’umiliazione penosamente provata. Spesso il timido rifiuta gli altri nel momento in cui ha troppo bisogno della loro approvazione. Come tutti i paurosi e i timorosi, il timido è un iperemotivo. Spesso si ripiega su se stesso, ma può anche succedere il contrario: diventa allora insolente, brusco, autoritario. La sua aggressività si manifesta violentemente e quasi suo malgrado, comportando subito dopo rimorsi e rimuginamenti pessimistici. Il timido è soggetto allo scoraggiamento. Rinuncia ad esprimere ciò che pensa, perché è troppo ansioso dell’effetto che questo potrà produrre. La paura di essere deriso gli toglie la sua vivacità di spirito. La semplice presenza di persone estranee devia o inibisce il corso delle idee, prolunga o sopprime la decisione, accentua l’idea dispregiativa di sè. La timidezza si vede spesso negli introversi depressi, presto affaticati dalla vita di gruppo. Il timido è vulnerabile. La nostra società, sotto delle apparenze confortevoli e funzionali, lo ferisce in profondità. Bisogna comprendere l’angoscia e l’apprensione del timido riguardo alla vita sociale che pialla le persone, le trasforma in pedine, in cose. La causa principale della timidezza, è lo sguardo altrui che ci riduce allo stato di oggetti; il timido pensa solo a sfuggirvi. Di qui il suo comportamento di fuga e di fallimento. Delle gravi carenze educative hanno spesso segnato l’infanzia del timido. Gli si è inculcata la paura degli altri, dunque la paura di vivere: infatti vivere è in gran parte confrontarsi con gli esseri e adattarvisi. Delle influenze educative nefaste perché troppo rigide, troppo diffidenti si esercitano sull’individuo; esse si accumulano, si condensano sotto forma di riflessi condizionati. L’inconscio ne è penetrato, e soprattutto i nostri atteggiamenti di esistenza, il nostro stile di vita. Se il bambino è allevato nel timore dell’iniziativa, le troppo lunghe tergiversazioni, l’assenza di decisione, la lentezza o l’esitazione nell’esecuzione degli atti, egli non cresce, non si permette il successo, resta bambino nelle sue reazioni, non osa crescere. Talvolta il timido ricerca inconsciamente le situazioni di insuccesso, di umiliazione, di avvilimento, e si compiace di una disgrazia che egli stesso ha creato. Tutto avviene come se il timido si vietasse la facilità (apparente), la disinvoltura, la possibilità di stabilire una certa armonia nei rapporti umani. Si tratta di far prendere coscienza al timido di un conflitto mal risolto con un genitore o un sostituto del genitore, di un bisogno di indipendenza raramente soddisfatto anche nel clima di contestazione attuale: infatti l’anarchia non è l’indipendenza. Il timido si isola dall’ambiente, sentito come ostile e pericoloso; evita i contatti estesi, la relazione con gli altri, col gruppo, considerata come minacciante. La paura diventa abituale; si estende come una macchia di nafta, infiltra l’Io, comporta un sentimento abituale di dubbio, di perplessità, una difficoltà a tornare alla normalità. Si può dire che l’insuccesso chiami l’insuccesso, allo stesso modo in cui l’inibizione si accentua con l’angoscia che essa stessa produce. Trionfare su una timidezza leggera è possibilissimo, a condizione di prendere coscienza di sé con lucidità, di coltivare e fortificare la confidenza in se stessi, nei propri atteggiamenti e nelle proprie qualità. La conoscenza del proprio valore, la certezza del ruolo che si deve giocare integrandosi in un gruppo ci aiuteranno a vincere la timidezza. La rimuginazione di ricordi penosi o di possibili fallimenti non giova in nulla all’uomo. Dal momento in cui si arriva a restare sufficientemente padroni di sè, delle espressioni del proprio volto, dei propri atteggiamenti, ci si sente forti e pronti ad agire.Il principale rimedio è dunque l’azione. (Guy Delpierre; La paura e l’essere)