Dipende dalla nostra morale la salvezza della società
In questi giorni di tensione e di guerra ci rendiamo conto di quanto sia ristretta l’isola di benessere e di pace in cui viviamo. Attorno a noi c’è uno sterminato mondo in cui la popolazione aumenta vertiginosamente, dove la metà degli abitanti ha meno di quattordici anni e si prepara ad un destino di miseria e di disoccupazione.
Un’ isola ristretta e fragilissima perché basta poco, una guerra, una catastrofe ecologica, una crisi economica per mettere tutto in discussiorie, per far riapparire lo spettro della scarsità e del disordine.
Noi dovremmo essere acutamente consapevoli di questo privilegio, di questa precarietà.
Ma non è così. Nella nostra vita quotidiana diamo per scontato tutto questo, come se ci fosse garantito da chissà quale diritto divino, come se fosse il prodotto di meccanismi automatici e ci accorgiamo soltanto di quanto ci manca, di quanto vorremmo in più.
Recentemente parlavo con un giovane dirigente che sta facendo un master in una prestigiosa università americana, un ragazzo estremamente dotato e motivato. Mi parlava dei metodi per espandere il mercato, per scalare le imprese, per conquistarle dall’interno.
E ho avuto, per un momento, l’impressione che egli fosse quasi posseduto da un demone. Che non sarebbe indietreggiato davanti a nulla pur di raggiungere i suoi obiettivi, diventare un capitano d’industria, impadronirsi di una impresa.
Mi è parso allora che egli fosse solo la riedizione moderna di quei capitani di ventura che, alla fine del Medioevo e all’inizio del Rinascimento, in Italia guidavano i loro eserciti a combattere per questo per quello e, ad un certo punto, si impadronivano di un ducato. Come i Montefeltro, come gli Sforza. Un’epoca di grande fantasia di grandi ingegni, però anche un’epoca che ha preceduto la rovina del nostro Paese perché questi capitani restavano fondamentalmente dei mercenari e si sarebbero venduti o arresi a tutti gli invasori.
E, guardando lui, ho avuto una impressione di grande debolezza del nostro sistema economico, con le sue grandi imprese, con le sue multinazionali, con la sua poten tissima finanza, ma con uomini così deboli, così fragili, così indifesi nei riguardi delle loro passioni, della loro avidità, della loro ambizione. Una società, un sistema sociale per resistere, per durare, ha bisogno anche di forza morale, cli giustizia, di dedizione, di spirito di sacrificio. Di altruismo, non solo di brillante, sfrenato egoismo.
E mi sono domandato: che risposta saprà dare questa nuova classe dirigente, questi futuri padroni dell’economia e della ricchezza, delle macchine e del denaro, alla sfida dei dannati della terra, dei miliardi di affamati avidi, carichi di bramosia e di risentimento, che assediallo la nostra isola felice? Quelli stessi che adesso inneggiano a Saddam Hussein e sperano che vinca, che distrugga con i suoi missili l’Occidente, che bruci con i suoi gas le nostre città ricche e felici?
E’ impossibile fare un discorso politico clic non sia anche psicologico e morale. Chi si trova in alto, in posizione di privilegio e di potere come deve educare se stesso?
Tutte le grandi società del passato sono riuscite a durare quando le loro classi dirigenti hanno avuto un ferreo codice morale. In Cina fu l’etica confuciana, in Giappone, Paese più arretrato e feudale, fu l’etica Zen.
La ristretta élite che governò per secoli l’impero romano fu stoica. Nel Medioevo la forza della Chiesa si. fondò sul rigore degli ordini monastici e perfino il capitalismo, per prosperare, ebbe bisogno dell’etica calvinista.
Torniamo alla domanda iniziale. Che tipo di personalità morale ci stiamo dando per conservare in vita la nostra società e per affrontare le sfide che la minacciano, che ci minacciano?
(di F.Alberoni)