dalMesaggero Veneto del 23/12/2001
Uno degli industriali della sedia, protagonista dell’internazionalizzazione del mercato locale, traccia gli scenari di un problematico futuro
Roberto Lovato: il nostro punto di forza, l’innovazione, sta diventando oggi il nostro punto di debolezza
di EUGENIO SEGALLA
UDINE – Roberto Lovato, figlio di un artigiano emigrato in Venezuela, si è laureato con una tesi sulla storia del Triangolo della sedia. Con lui, la falegnameria paterna è diventata prima un’azienda, quindi una costellazione di imprese. La sua Top Sedia sciorina infatti quattro unità produttive in Italia (tre in Friuli) e una rispettivamente in Albania, in Bosnia, in Francia e in Svezia. «Fino all’83 – dice – non avrei mai pensato di diventare un industriale della sedia»
Il suo è un caso emblematico del boom industriale friulano. Come ha maturato la scelta imprenditoriale?
Fare l’imprenditore è il più bel mestiere; ti dà l’opportunità di creare ricchezza, di sognare e di progettare oggetti e modo di produrli. E abbiamo il potere di strappare dalla miseria cittadini del terzo mondo offrendo prodotti più convenienti nei paesi sviluppati.
La sedia è in crisi o no? E il distretto ha un futuro?
Da tempo immemorabile si dice che viviamo tempi difficili; ma oggi viviamo in condizioni migliori. Probabilmente le attuali difficoltà preludono a ulteriori miglioramenti. Tanto mi suggerisce l’ottimismo della volontà. Se però ascolto il pessimismo della ragione e vedo i numeri, non posso sottacere che il settore è maturo, che la materia prima arriva mediamente da 1000 chilometri di distanza con elevati costi di trasporto, che il nostro costo del lavoro è 4-5 volte più alto che nell’Europa dell’Est, dove tra il legname abbonda. Come non bastasse, siamo un popolo anagraficamente vecchio e generalmente poco motivato. Tanti anni di benessere hanno ridotto la nostra tradizionale inclinazione a sacrificarci.
È una deriva senza sbocchi?
No, ma occorre che tutto cambi. Ma prima occorre guardare in faccia la realtà. Non corrisponde al vero che nel distretto della sedia si produca il 30% del totale mondiale. Dalle statistiche e da un’analisi del governo francese si desume che la produzione di sedie nel Triangolo oscilla fra il 7 e il 12% della produzione globale.
Questo vuol dire che c’è un notevole potenziale di crescita?
Purché ci siano la volontà e la capacità del distretto a esaminare i punti di forza e di debolezza e a reagire con idonee scelte imprenditoriali e politiche.
Cominciamo dai punti di forza.
Non corrisponde al vero che la miriade di sub-fornitori sia il punto di forza del nostro Distretto. Da un recente studio sull’occhialeria cadorina emerge che le quattro principali aziende hanno “interiorizzato” tutte le fasi della produzione: è interessante notare che, dopo tale operazione, il ritmo di crescita di fatturato e reddito in quel distretto è stato superiore alla media. Se consideriamo inoltre che, in termini percentuali, il costo di carico-scarico-trasporto delle sedie incide molto più significativamente sul valore della produzione, si deduce che quanto fino ad oggi è stato indicato come il presunto principale punto di forza probabilmente non è tale.
Mentre i punti di forza sono, a mio avviso, il buon approccio all’industrializzazione della produzione, in particolare rispetto all’Est Europa: la notevole disponibilità di know-how e di servizi specializzati (officine meccaniche, consulenti tecnici, vasta gamma di fornitori, etc.); la sensibilità al design ed alla qualità; il fatto che le nuove esperienze di ogni produttore del distretto aumentano per “osmosi” il patrimonio collettivo di conoscenze dell’area; l’esistenza di servizi collettivi di qualità (il Catas).
E i punti di debolezza?
L’importazione della quasi totalità della materia prima; il costo dell’energia elettrica pari al 50% in più della media europea; la scarsità di manodopera e il suo costo, superiore di 4-5 volte a quello riscontrabile in Paesi che si apprestano a diventare nostri concorrenti; infrastrutture viarie vetuste; il trasporto del prodotto finito, che è la voce principale di costo. Inoltre, siamo penalizzati dalle scandalose inefficienze delle ferrovie italiane; dalla mancanza di collaborazione fra aziende e dalla preoccupante situazione ambientale.
Ritorniamo alle previsioni.
In mancanza di interventi, fra 3-5 anni lo scenario più probabile è che, grazie al forte sviluppo in atto nei paesi dell’Europa orientale (ma non dimentichiamo la Cina), i fornitori di macchine-utensili trasferiranno il meglio del nostro know-how nei paesi in via di sviluppo. Mi risulta al riguardo che un’azienda coreana, utilizzando due tecnici del distretto e l’attrezzatura acquistata in Italia, abbia realizzato una fabbrica che vende, nella sola California, oltre un milione di sedie l’anno. In altre parole, quello che era il nostro punto di forza – la rapida condivisione dell’innovazione all’interno del distretto – sta diventando un punto di debolezza: non c’è infatti osmosi tra l’innovazione “prodotta” all’esterno (cito ancora l’esempio della Corea) e il nostro tessuto imprenditoriale. Di conseguenza l’attuale capitale delle nostre conoscenze è destinato a decrescere: è sufficiente infatti che un’azienda estera abbia un’“antenna” nel distretto, per accedere a tutte le nostre innovazioni. Abbiamo così una trasmissione di tecnologia a senso unico, con conseguente rapida perdita di competitività. È un fatto grave, soprattutto dove la competitività è aumentata grazie alla condivisione delle innovazioni.
Teme sia troppo tardi per fermare questo deflusso?
Le possibili azioni correttive riguardano la sensibilizzazione degli attori privati e pubblici affinché comprendano che, ai cambiamenti di geografia politica, seguono inevitabilmente cambiamenti di geografia economica. Inoltre, viviamo in una fase di forte accelerazione dei cambiamenti, di cui mi sembra non ci sia sufficiente consapevolezza.
Su questo fronte l’Università potrebbe giocare un ruolo significativo.
Sì, per valorizzare l’unica nostra risorsa, la conoscenza, gestendone sistematicamente il trasferimento; il che è unico contraltare alla cessione di macchinari da parte dei produttori. Attualmente ci sono intere nazioni in… svendita, dove lo Stato cede a prezzo stracciato le proprie fabbriche purché vengano rimesse in moto. Personalmente, ritengo sia meglio per tutti che i nostri imprenditori vadano in Bosnia piuttosto che i bosniaci vengano nel distretto. Se i nostri imprenditori creano una rete di aziende all’estero, possono tentare di presidiarne i mercati.
È pure necessario promuovere la formazione di piccoli gruppi di aziende finalizzati a progetti innovativi. Ad esempio un gruppo di aziende potrebbe organizzare in Bosnia la produzione di componenti, per poi assemblarli nell’area Nafta (Messico – Usa – Canada) con un risparmio nel trasporto pari all’80%, più l’azzeramento dei dazi. A tal fine credo necessario un aumento delle dimensioni operative delle attuali imprese, e proprio in quest’ottica è necessario promuovere le aggregazioni.
A chi spetta questa missione; al Distretto?
Il professor Grandinetti ha dimostrato che il Distretto è al traino delle principali 4-5 aziende: mi sembra poco logico che queste non siano rappresentate nel Comitato di Distretto, causa non ultima del suo vuoto progettuale. Evidentemente, pseudo-problemi di potere privilegiano chiare esigenze di efficienza.
Basta il Salone della Sedia a fare promozione?
Pur avendo svolto una positiva azione in passato, oggi è superato se non dannoso: il rapporto fra costi e benefici della partecipazione ad una fiera sempre più spesso è positivo solo per le nuove aziende del settore, ossia per i nostri nuovi concorrenti. Sono quindi maturi i tempi per rendersi conto che ci sono strumenti di presentazione della nostra produzione più efficaci e/o meno costosi.
Rispetto a quali scenari lei verifica questa ipotesi?
Quanto sopra rappresenta soltanto il mio personale sentire, di certo non considera tutte le problematiche del settore. In particolare sono consapevole che l’unica previsione certa è che le previsioni non si avverano e che, se si avverano, è difficile definirne i tempi.
Qual è il suo rapporto con la politica?
Imprenditori e politici rappresentano due mondi troppo lontani: realizzazioni e risultati sono la prova delle capacità dei primi; i secondi sono invece attenti all’arte del possibile, inclini al compromesso e troppo condizionati dalle preoccupazioni elettorali. Sarebbe più bello per tutti se anche i politici potessero – o volessero – concedersi un po’ di creatività e di fantasia. Ho poi la spiacevole senzazione che ottimi personagggi delle diverse forze politiche sprechino energie a elidersi a vicenda con danno della collettività.
Prendiamo l’esempio dell’art. 18 sui licenziamenti, tanto dibattuto. Ebbene, riguarda solo categorie di lavoratori che attualmente non traggono alcuna protezione da questa legge. Trovo pertanto assurdo il frastuono che se ne fa. Nello stesso tempo mi meraviglio che nessuno si scandalizzi del fatto che i lavoratori dipendenti siano costretti a finanziare le imprese con i soldi del Tfr – i propri – per decine di migliaia di miliardi, ricevendo in contropartita un rendimento modesto che lo scorso anno è stato del 3,35%.
Se ne è giovata anche la sua azienda. O no?
Top Sedia ha costituito agli inizi del 1992 il primo Fondo pensione integrativo dell’intero Triveneto che nel 2000 ha reso il 6,35%. Oggi raccoglie qualche miliardo di capitale con posizioni intestate ai singoli dipendenti.
E il suo rapporto con la burocrazia?
La burocrazia è un problema di leggi, ma anche di valori culturali. Quando funziona, è un fattore di efficienza non trascurabile, paragonabile a quella che ne deriverebbe se il distretto potesse disporre di un servizio ferroviario efficiente. La sua inefficienza ci costringe, ad esempio, ad affidarci al trasporto su gomma che tra l’altro enfatizza le falle della 56, con conseguente danno ambientale e aggravio di costi.
Le infrastrutture sono incompatibili con gli standard di efficienza del territorio. Perché è così difficile, per esempio, intervenire sulla statale 56?
Ho letto che in altre parti del Friuli si sono lamentati dell’entità degli investimenti che si spera saranno fatti nel Manzanese. Al netto dei costi per le materie prime e l’energia, il valore prodotto dal distretto supera ampliamente i 1.000 miliardi; tenuto conto che il prelievo fiscale incide per oltre il 40%, lo Stato incassa – dalle nostre aziende – oltre 400 miliardi l’anno. È facile prevedere che, con una viabilità decente, lo Stato incameri altri 40-50 miliardi. Pertanto dovremmo chiederci quanto costa alle casse publiche non fare la strada piuttosto che farla.
In questi mesi si è parlato spesso, nel bene e nel male, del suo impianto di termovalorizzazione: cosa può dire al riguardo?
Le accuse rivolteci, francamente, non riteniamo di meritarle, soprattutto perché siamo fortemente impegnati a rispettare l’ambiente. L’attuale presidente dei verdi, Pecoraro Scanio, si è lungamente soffermato sulla nostra iniziativa, così come il direttore del Ministero dell’ambiente, Clini. Quanto realizzato è solo parte di un programma, che potrebbe portare alla certificazione ambientale di distretto con notevoli vantaggi per la salute degli abitanti e per l’immagine dei nostri prodotti.
Vuol dire che può essere l’embrione del teleriscaldamento?
Se ci fosse la volontà politica di realizzarlo, elimineremmo molto inquinamento e risparmieremmo il 30-40% sul metano. Elimineremmo anche il rumore delle torri di evaporazione che, pur contenuto nei limiti di legge, infastidisce alcuni abitanti a Manzaninello.
Quali sono i suoi progetti?
Intendiamo automatizzare al massimo la produzione nel Manzanese puntando a lavorare su più turni in modo da reggere la competizione con le attività che stiamo trasferendo all’Est; stiamo inoltre cercando di creare una rete di alleanze con altre aziende in modo da affrontare con maggiori possibilità l’accelerazione del cambiamento. Potrebbe essere una grossa opportunità di salto culturale e di incremento di efficienza.
Come immagina il futuro del Triangolo?
Mi piace immaginarlo, nel medio periodo, ad elevata tecnologia, capace di privilegiare design, ricerca, sviluppo e pianificazione. Con uno stuolo di tecnici e di commerciali in grado, da qui, di gestire unità produttive nelle aree ricche di materia prima per produrre elementi pronti all’assemblaggio là dove esistano forti concentrazioni di domanda.
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