dal Messaggero Veneto del 5/08/2002
Dagli anni Trenta alla morte: il percorso creativo del maestro di Moimacco
Una pittura come poesia
L’arte di Guido Tavagnacco, in mostra a Udine in San Francesco
di LICIO DAMIANI
Stesure giallo oro sfumate nel verde zenzero, intarsi di celeste grigio, qualche segno nero e il rintocco bruno dilavato della fascia d’orizzonte. La posizione preminente della grande tela Campi di colza (1971) nella mostra retrospettiva in San Francesco Guido Tavagnacco pittore (fino al 18 agosto, catalogo Lithostampa a cura di Giuseppe Bergamini con un saggio di Licio Damiani e un’antologia critica) riassume la poetica dell’artista di Moimacco, tesa alla trasfigurazione poetica del reale. Le gamme coloristiche, distillate nell’alambicco della memoria, si effondono leggere, la presenza tattile e asprigna della materia si scioglie nella luminosa vibrazione atmosferica con risonanze vaghe, come traccia superstite di un prezioso paliotto gotico.
La rassegna, dopo quelle dedicate a Marcello D’Olivo e a Giuseppe Zigaina, fa il punto conclusivo sull’opera di un autore che ha mediato la cultura figurativa del Novecento con la tenace e appassionata fedeltà alle native radici agresti. Il suo linguaggio esprime il temperamento schivo e appartato dell’uomo, una qual risentita timidezza dell’animo che non rifuggiva comunque dalle decisioni forti.
«Tavagnacco – scrive Bergamini – amò operare in silenzio, al di fuori del clamori delle mode, senza scendere a facili e fuorvianti compromessi col proprio credo artistico, mai però disinformato o estraneo alle contemporanee proposte culturali». Una presenza solitaria ed eccentrica molto importante nella storia dell’arte friulana.
L’esposizione prende avvio dalle opere giovanili degli anni Trenta e dei primi anni Quaranta, espressioni di un talento vocato alla pittura e tuttavia condizionato dalle chiusure di un arretrato mondo contadino. Autodidatta che fin da bambino anteponeva la pittura ai giochi dei coetanei, Tavagnacco apprese i primi rudimenti dell’arte a Cividale dal miniaturista Marcello Tomadini e poi da Antonio Coceani, delicato interprete del tonalismo veneto. Fonti ispiratrici erano i volti e i caratteri di familiari e amici, paesaggi, nature morte. L’immagine veniva inquadrata entro semplificate strutture prospettiche desunte dal linguaggio popolare. Ma Figure di donne (1938), uno dei frammenti d’affreschi recuperati dalla casa paterna, ora nel Municipio di Moimacco, ostenta una carnalità sapidamente vernacola ricalcata con aurorale stupore dal classicismo rinascimentale e settecentesco attraverso inflessioni auliche del Novecento italiano, e i due assolati Paesaggi del 1940 preannunciano le effusioni elegiache come di stoppie o di grano maturo dei dipinti più tardi.
Il contatto con la cultura figurativa internazionale avviene a Venezia, dove il pittore frequenta il Liceo artistico e l’Accademia. Decisiva l’influenza dei suoi maestri, Giuseppe Cesetti e Bruno Saetti.
Del primo acquisisce l’impronta chiarista e l’epos rurale; del secondo i rigori della scomposizione e ricomposizione cubista, le semplificazioni sintattiche, l’aura di trasognamento. Sono gli anni in cui l’arte italiana riscopre Gauguin, Cézanne, le avanguardie storiche, Braque, Picasso, gli espressionisti, Matisse e i fauves. Tavagnacco ne recepisce le coordinate sintattiche per dare solidità e consistenza ai temi incentrati sul piccolo-grande mondo friulano.
Ecco, allora, l’Autoritratto del 1946, dalla squadratura pensosa, attonita e un po’ guascona, i due Ritratti di Liliana e l’edenica malinconia della coppia di Ragazze sul prato, del 1949, la ragazza-Pomona campeggiante nell’olio su compensato Al mercato (1950), cangianti di umori arcaici e di una vaga inquietante malia esotica.
Sebbene vicino per sentimenti e posizioni politiche ai neorealisti, Tavagnacco usa un linguaggio “altro”, d’intonazione – come egli stesso ebbe a precisare – «patetica e lirica», secondo «una visione tonale in parte autonoma». Modulazioni lievi di colore, sfumature della limpida materia pittorica, evocano piuttosto che rappresentare figure di un’armonia flessuosa.
Le Lavandaie, il cui nutrito capitolo inizia nel 1949, si atteggiano secondo schemi tratti dal simbolismo e dai Nabis, risalgono al Gaguin di Pont Aven, alle rudi, semplificate, maestose donne bretoni di Émile Bernard e di Paul Sérusier, alle forme misteriosamente spirituali di Maurice Denis. I molti Ritratti saldano in un originale patois colmo di suggestioni echi di Matisse, Van Gogh, Modigliani. Le Nature morte si impongono con architettonica chiarezza. I Paesaggi cividalesi, molti dei quali ad acquerello, affiorano come visioni arcane, impalpabili e sfuggenti.
Negli episodi della Resistenza affrontati a partire dalla fine degli anni Cinquanta in chiave di memoria l’attenzione, più che su episodi bellici, si sofferma sulla commossa partecipazione dei partigiani e delle loro donne, raccolti in notturni incontri campestri, a un sentire comunitario, alla celebrazione rituale di un’identità collettiva. I particolari di alcune immagini sono tratti dall’iconografia cristiana, così come le Deposizioni di Cristo e le Pietà elevano a livello sacrale tragedie e orrori della storia. In tale prospettiva, nella straordinaria Deposizione del 1960 il calvo personaggio espressionisticamente enigmatico, specie di Nosferatu che raccoglie fra le braccia il corpo esangue del Salvatore innaturalmente flesso ad angolo acuto, si direbbe simboleggiare l’ambiguità dell’essere umano tra follia distruttrice e desiderio di redenzione.
Gli anni Sessanta registrano profondi cambiamenti. I Nudi di donna del 1960 sfoggiano una pittura lussureggiante e ambrata, fra Tiziano, Rubens, Renoir. Dal soggiorno in Normandia l’artista ricava vaporose impressioni stemperate e compendiarie. Le prore di piroscafi e pescherecci che arpionano il cielo nell’acquerello Barche comunicano una vitalità che sa di salso e di sentina dei porti di Dalmazia. Nel 1962 l’incontro con le terre iberiche accelera il processo verso un linguaggio più ampio e sintetico, ai limiti dell’astrazione.
I Ricordi di Spagna si articolano in frementi stesure di ocra, di bianchi calcinati, di grigi, di sottili variazioni di bruni e di rigature nere-pipistrello; l’orizzontalità s’ingabbia entro maglie e trame retinate costruite con morbidezze e dorature indefinite. La visione così purificata affiora anche nelle opere successive, fino a consumare la corporeità dei paesaggi friulani e delle “storie di cardi e di girasoli” lasciandone sulla tela soltanto l’orma, mentre trasparenti parvenze di contadini fanno da protagoniste nelle Vendemmie e nelle Raccoglitrici di verze. Verso la metà del decennio e nei primi anni Settanta la «luce irresistibile» delle isole egee arricchisce la tavolozza degli azzurri purissimi che scintillano nei versi dei poeti neogreci Palamas, Elitis, Seferis e tornisce l’audace e insolito taglio dell’acefala Donna che si sveste (1978) come un frammento di bassorilievo ellenistico.
Muove da qui l’itinerario verso la riduzione dell’oggetto a mero trasalimento materico, a pulviscoli sempre più tenui, a tremori imperlati.
Anche il paesaggio viene corroso dal medesimo tocco. Interni, fiori, cardi, girasoli e altre nature morte lasciano labili traccia inquadrate entro intelaiature geometriche di assonanza cubista, si sciolgono in emulsioni, in brividi impercettibili, in tonalismi finissimi e preziosi che alonano e dilatano la centralità del nucleo compositivo, persistente zoccolo duro del reale. Abbandonandosi completamente alla chiarità enigmatica della tela quasi intonsa e come tramata da fuggevoli ombre, il pittore temeva infatti di rimanere irretito in estenuazioni formali sia pur squisite, eleganti, aeree.
Da qui il periodico ritorno a una figurazione più esplicita e distesa in complessi ritmi narrativi, la ripresa del ritratto come analisi introspettiva, il recupero e la celebrazione affettuosa delle «virtù rustiche» della propria gente, che avrebbe trovato nelle due grandi tele per la sala consiliare del Municipio di Moimacco (1983) elevati accenti di rapsodia nazional-popolare.
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Impegno civile e cicli sacri
Guido Tavagnacco (Moimacco 1920 – Udine 1990), originale interprete della cultura figurativa friulana, si è espresso in diverse tecniche artistiche. Oltre alle migliaia di disegni, acquerelli e oli, ha sperimentato grafica e scultura (alla mostra in San Francesco sono esposti tre bronzetti inediti).
Del suo impegno civile e della sensibilità architettonica testimoniano i Monumenti ai Caduti della seconda guerra mondiale di Moimacco e Beivars e i Monumenti ai Caduti della Resistenza di Manzano, Premariacco, Monfalcone. Si è dedicato alla ritrattistica, ha affrescato locali pubblici con temi popolari e realizzato cicli religiosi in chiese e cappelle.
Particolare importanza assumono la Via Crucis nella parrocchiale del paese natio e le Formelle di San Donato, in bronzo, nell’omonima chiesetta campestre di Moimacco. Il Comune di origine gli ha dedicato un museo.
L.D.
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