dal Messaggero Veneto del 30/03/2002
Il pittore, incisore e scrittore di Cervignano parla di sé, del proprio mondo simbolico e di Pasolini
«Mio padre l’ariete, mia madre e la mia arte»
di GIUSEPPE ZIGAINA
Il titolo di un quadro (o di un racconto) tende sempre a essere un coagulo di senso. Detto in altre prole, il titolo di un’opera è solitamente costituito da una formula ridotta ai minimi termini verbali che parla di un fatto reale, come possono essere reali, sul piano espressivo, un quadro o un racconto. Il che ci rimanda, per quanto riguarda l’essenzialità e la realtà di un titolo, alla «proposizione atomica con funzione di verità» di Wittgenstein, ossia a un sistema stilistico che riassume nel modo più conciso possibile il senso dell’immagine o del sottostante discorso. Qualcuno dirà che un titolo vale l’altro. Sì, è vero, ma solo nel senso che se del titolo di un’opera non restasse traccia negli anni, l’opera a cui esso si riferiva resterebbe intatta nel suo valore.
Ma succede talvolta che la scelta del titolo di un quadro si inscriva in un processo che dura nel tempo fin da quando, come è nel mio caso, si è cominciato a raccontare qualcosa per immagini. Si tratterebbe allora di un titolo come segmento di una embricazione simbolica che dura quanto dura una vita.
Quando ho scritto per la prima vola in calce a un mio disegno degli anni Cinquanta Mio padre l’ariete non avevo ancora capito che nel profondo di me si svolgeva un gioco a rimpiattino tra il titolo che avevo dato a quel disegno e la cosa realmente simbolizzata.
A esempio l’immagine di mio padre col volto sfigurato da una testa d’ariete non era mai stata per me oggetto di riflessione, se non dal punto di vista formale. Sennonché, un giorno, il titolo che io davo a quell’immagine si è rivelato improvvisamente un’esplosione di senso. Così, dopo molti anni che mio padre l’ariete accompagnava sui disegni la mia firma, ho capito che l’ariete sono io, che sono nato in aprile, e non mio padre che era di tutt’altra costellazione, per cui il gesto di mettere in ombra il suo volto con l’emblema della costellazione che mi ha visto nascere lo annullava, o, forse, lo proteggeva.
Non so. Sta di fatto che attraverso quell’inconscio sovrappormi a lui – sotto forma di ariete – me ne stavo in qualche modo allontanando, fino a stabilire dentro di me, una nuova collocazione del padre e della madre. Se ora mio padre mi si ripropone in modo alterno e discontinuo come un’entità che sopravvive per un eccesso di concretezza (che non esclude la tenerezza che ispira ogni genitore scomparso), mia madre invece, non essendoci mai stata nei miei quadri, è dappertutto: dissolta nel territorio dove sono nato e cresciuto.
Ed ecco forse la spiegazione: i rapporti con mio padre sono sempre stati difficili perché, nel fondo, sono rimasti inespressi. Lui parlava pochissimo con me, ma quando si accorse che la mia unica e grande passione era la pittura, incominciò ossessivamente a ripetere che «con la pittura non si vive». Me lo diceva soprattutto nelle sere d’estate mentre eravamo seduti fuori casa a prendere il fresco.
Ma se lui guardava fisso oltre il suo orto, io seguivo con gli occhi le lucciole nel buio… Mia madre, rassicurandomi, mi esortava ad andare avanti per la mia strada. Una strada che da come me ne parlava sembrava conoscere in ogni minimo dettaglio. Sapeva a esempio che io, disegnando – ed eravamo alla fine degli anni Venti – mi raccontavo una storia: sempre la stessa naturalmente, ma rinnovata dalle emozioni del viaggio… Solo oggi, a pensarci, posso dire che lei seguiva il mio lavoro senza distinguere, diciamo, il verbale dell’iconico, mentre mio padre, da esperto artigiano, esaminava i miei disegni da un punto di vista strettamente formale. Per lui insomma ciò che io mi raccontavo era importante solo per il come lo rendevo visibile, mentre mia madre, senza averne coscienza, lo coglieva, sorridendo come il mio unico e inscindibile modo di comunicare con lei.
Ebbene, dopo una vita, mi accorgo che niente è cambiato, perché ancora oggi ciò che di me riesco a raccontare segue sempre la linea di confine tra l’iconico e i verbale, quasi fossi costretto a dire con la scrittura ciò che non riesco a esprimere compiutamente con la pittura – e viceversa. Il che, dopo tutto, mi sembra normale giacché i due campi espressivi coesistono potenzialmente nel pittore e nello scrittore, purché entrambi abbiano, come si dice, «qualche cosa da dire».
La forma infatti non preesiste all’idea, ma si rivela lungo un concreto processo operativo. D’altra parte mi chiedo (non senza l’ironia di chi si difende da una oscura esperienza): perché il nostro cervello ha due emisferi, che pur custodendo gelosamente i compiti specifici cui sono deputati si scambiano preziose informazioni su come essi percepiscono le cose del mondo? Forse perché l’emisfero sinistro le decifra e quello destro le coglie nella loro spazialità? Uno studioso che si occupa specificatamente di questi problemi potrebbe darci una risposta, oltre che esauriente, anche diretta. Io invece cercherò di rispondere, indirettamente, giovandomi della mia esperienza.
Per una serie di problemi tecnici, diciamo, ho cominciato molto tardi a fare acquaforti. E così un giorno, durante un mio soggiorno a Roma, ho incontrato Rafael Alberti. Era, ricordo, il 1965. Il poeta spagnolo, anche lui artista schizoide, stava incidendo acquaforti con lo stampatore Romero.
Mi portò con sé e mi fece incidere lì per lì una lastra di piombo. Il piombo non ha bisogno dell’inchiostro. Una volta inciso basta solo stampare. Ebbene fu da quella esperienza che io ebbi la conferma che l’impianto grafico è la struttura portante della mia pittura. Ma ho anche scoperto, in quella occasione, che tra una pagina scritta e un’acquaforte non c’è quasi differenza; presentandosi, entrambi i supporti, come sequenze di segni. Non solo, ma lo stilo, quello strumento appuntito di acciaio con i quale gli antichi scrivevano sulle tavolette di cera, è ancora oggi lo stesso che io uso per incidere le lastre.
La scrittura e il disegno sono dunque in così stretto rapporto che il vocabolario registra addirittura l’identità lessicale di stilo e stile; pur essendo, lo stilo, lo strumento con cui si incidono i segni, e lo stile invece il modo particolare e caratterizzante con il quale lo scrittore da una parte e l’incisore dall’altra li dispongono sui relativi supporti.
Chi ha utilizzato mirabilmente tale identità lessicale è stato Pier Paolo Pasolini intitolando la sua ultima opera teatrale Bestia da stile. Con questa formula il poeta-regista descrive fulmineamente la sua opera-vita. Egli cioè (con un occhio a Wittgenstein) descrive se stesso come un essere che da una parte potrebbe venire ucciso come una bestia (e lo è stato infatti) e dall’altra come uno scrittore che su quella morte così particolare fonda il suo stile. Il mio ultimo libro dedicato al poeta friulano si intitola appunto: Pasolini: «un’idea di stile: uno stilo» (Marsilio Editori, Venezia, 1999).
Per tornare alle origini del mio discorso, dirò che quando, tra i sei e i nove mesi, un bambino incomincia a usare sempre più frequentemente la mano destra per toccare le cose attorno a lui sta allargando, in realtà, la conoscenza del proprio territorio: quello che sarà il suo futuro universo. Ma perché la mano destra? Perché la mano destra, con la quale normalmente scriviamo o disegniamo, è in rapporto diretto con il centro dell’emisfero sinistro deputato al linguaggi e dunque alla comunicazione. Talvolta, per le più strane casualità, tutto ciò non avviene. Ed è allora che madre natura interviene a riequilibrare le cose.
Molti anni fa – era forse il 1952 – con la mia prima macchina fotografica ho ritratto mio padre seduto su un argine assieme a mia madre. Ho conservato quella foto perché mi era piaciuto l’impercettibile sorriso di lui, che, per quanto reso innaturale dalle pieghe del volto adattatesi ormai a una ben altra espressione, mi sembrava degno di una indagine particolare. Poi, ingiallendosi la foto con il passare del tempo, l’ho fatta ingrandire separando le due figure, cosicché mio padre, ricompostosi nel rettangolo che ora lo separa dal mondo, ha acquisito per me – sia pure nell’ambito di una privata mitologia – una presenza simbolica. Mia madre invece si è dissolta subito nell’aria… Sentivo di aver bisogno della figura di mio padre da un punto di vista, diciamo così, pittorico-compositivo e, dall’altra, da un punto di vista che non saprei definire altrimenti che «magico». Avevo comunque bisogno della forza (sciamanica) di quella immagine e perciò, intervenendo su di essa con sfregi, segni o fotocopie che ne esaltassero la rude concretezza, la collocavo in alto, quasi smarginata, sull’asse centrale della tela.
Mio padre non era più su un cumulo di terra della campagna friulana, ma su una zolla d’erba del cielo… Quello che invece non ho ben capito è da dove mi sia derivata la necessarietà del rituale; che da una parte era distacco e dall’altra una sorta di pietà: gli stessi sentimenti che provavo per lui nelle sere d’inverno quando lo seguivo nel suo lavoro. Sempre in silenzio sotto la lampada che illuminava le sue mani. Non so come dirlo. Riproporre, oggi, mio padre nella sua fissità figurale mi sembra talvolta arbitrario o banalmente provocatorio. Eppure non ci sono trasposizioni, non ci sono rimandi e ancor meno allusività. Sento soltanto che la mia ricerca formale può avere un senso solo all’interno del recinto sacro: del themenos appunto, quello che io traccio subito, inconsciamente, a difesa di mio padre. Questo per dire che il soggetto dei miei quadri non è mai un pretesto, è sempre il segmento di una storia che ha due aspetti: uno iconico-formale e l’altro pericolosamente verbale – attratto com’è dall’autobiografica embricazione simbolica (a cui non posso sottrarmi).
Dirò ancora – per concludere questa imprevista confessione – che nel 1942 ho dipinto un quadro intitolato Il girasole. Non era una natura morta, ma una sorta di paesaggio con in mezzo il fiore già quasi appassito. Un cielo tempestoso e romantico. Tragico, anzi. Dopo alcuni anni, a Trieste, l’ha visto Gillo Dorfles. «La tua – mi ha detto – è una visione animistica!». E aveva perfettamente ragione, perché la mia posizione nei confronti di quello che io chiamo territorio (dell’anima) è sempre stata una forma proiettiva di autoidentificazione in cui soggetto e oggetto sono inscindibilmente concatenati. È solo in tale visione animistica infatti che può instaurarsi la metamorfosi delle cose simbolizzate. E qui la metamorfosi si sviluppa su due linee parallele: una concatenzazione simbolica, molto privata, che traspare da una concatenazione formale. Le quali in realtà appartengono a entrambi a un unico processo. L’«impegno civile», a esempio, di cui negli anni Cinquanta si è tanto parlato, rientra in quel processo, lo sovrasta, lo guida, fa parte cioè della visione del mondo dell’artista. E, quando l’artista è confitto nella realtà, la rappresentazione del mondo non può mutare, nel profondo. Può mutare soltanto la rappresentazione figurale di una realtà che muta perché è metamorfosi.
Le mie biciclette, definite realistiche in quegli anni, erano invece fortemente simboliche. E le falci lo erano ancor di più. I parafanghi bianchi prescritti dall’oscuramento di guerra obbligatorio si accompagnavano formalmente alle falci, ne erano il contrappunto; erano, se così posso dire, una idea di contiguità/differenza. La mia non era l’arcaica falce messoria dei primi contadini del mondo, ma ne era il residuo tecnico-formale, restando, la falce, l’inamovibile simbolo di morte. I primi agricoltori della storia, dopo aver seminato il grano e averlo alimentato col sangue delle innumerevoli vittime umane (meriah), erano costretti, per sopravvivere sulla terra, a mieterlo con la falce messoria. E dando la morte al grano cantavano inni di dolore, i «Treni» di Pasolini, che assieme ai «Temi» hanno ridotto al silenzio molti incauti esegeti.
Ed ecco che a chiusura di questa confessione è arrivato il momento di mettere per iscritto, chiaramente – in modo che sia io il primo ad esserne convinto –, le ragioni per cui a un certo punto della mia vita non ho potuto non scrivere di Pasolini. Scrivere, per me, è sempre stata una attività portata avanti negli anni per istinto, per necessità, per riordinare le idee, come si dice; oppure, il che è lo stesso, per razionalizzare le intuizioni che esplodono senza stimoli ben individuati, senza cioè che ci sia una relazione tra chi invia il messaggio e chi lo decifra. Perché, come si sa, si è sempre immersi in un brulichio di segni. Sennonché, quando il rapporto che si instaura è tra scrittura e lettura, tra un autore e un lettore, quando cioè il testo che si ha sotto gli occhi è aggressivo, coinvolgente, ambiguo e ricattatorio come lo è quello di Pasolini, si sente un bisogno irrefrenabile di interrogarlo. per cui, se dovessi nominare ciò che mi ha indotto a perquisirlo, così come io ho fatto, direi proprio: una volontà di possesso linguistico. In altre parole: la reazione a una sfida (tra le tante che il mio cervello subisce).
E la sfida di un thriller dell’intelligibilità – il pasoliniano «giallo puramente intellettuale» – deve avere una risposta concreta, tangibile, riscontrabile nei testi, deve essere oggetto cioè di una decifrazione che rispetti solo la logica interna al discorso e non l’esterna verosimile esegetica. Sì, devo dire che L’intelligenza della mano – la mostra del 1999 così intitolata da Peter Weiermair per la Triennale europea dell’incisione – un titolo che è una «proposizione atomica con funzione di verità» – riassume e descrive con il minimo dispendio di energie psichiche la mia risposta a quella (mitica) sfida.
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Dipinti e opere grafiche. La rassegna, già allestita a Monaco e a Bologna, sarà poi trasferita a Salisburgo
Una grande mostra per Zigaina
A Udine nella chiesa di San Francesco e in castello, dal 18 maggio al 30 giugno
E’ impensabile inquadrare un personaggio come Giuseppe Zigaina nello specifico di una materia: artista, scrittore, studioso. È un uomo poliedrico che non necessita di critici, di mecenati, di nessuna figura che se ne faccia promotrice o che ne curi le relazioni: Zigaina è assolutamente autonomo, talvolta imprevedibile, sempre sicuro delle sue azioni.
Ha la grande capacità di inchiodare la platea durante un convegno, ama parlare di arte e letteratura, mai di se stesso. La sua passione si chiama Pier Paolo Pasolini, lo straordinario regista-poeta-scrittore a cui il maestro Zigaina ha dedicato trent’anni di studi che hanno generato la pubblicazione di una decina di libri dove è riuscito a interpretare, anzi trascodificare, i messaggi criptati che il regista ci ha voluto inviare. Due figure molto complesse e nello stesso tempo molto vicine, sicuramente carismatiche, intelligenti, decisamente trainanti e coinvolgenti.
Lavorare con Zigaina non è facile, l’abbiamo fatto per dieci anni ricchi di accesissime diatribe, disquisizioni, profonde ferite ma anche di straordinari, splendidi, impagabili momenti. Stare vicino al maestro, così lo si chiama, significa grande arricchimento intellettuale e soprattutto si è spesso lusingati dalle sue attenzioni dedicate unicamente alle persone che meglio conosce. Ha la capacità di coinvolgere chiunque in mille progetti, è una specie di “pifferaio magico” sempre seguito con dedizione assoluta. Molti, forse troppi vantano grande amicizia con questo artista, lo accompagnano, lo presentano a mille conferenze cercando di ricavare notorietà e prestigio, ma Zigaina rimane pur sempre un personaggio assolutamente schivo, lontano dagli incontri troppo blasonati tanto da preferire per i suoi convegni, con assoluta equità, sedi periferiche piuttosto che prestigiosi musei. Vive in un limbo che è la sua casa di Cervignano, il suo studio, la sua famiglia; è inutile coinvolgerlo in mere problematiche legate a insipidi progetti o meri aspetti economici.
Se il suo lavoro è sempre rigoroso, metodico, quasi esasperante – lui stesso dice che i suoi orari sono quelli di un bancario – nella realtà Zigaina ha un umorismo quasi inglese, capace di cogliere sempre nel segno e affrontare determinate problematiche con ironia anche se talvolta il suo carattere caparbio è temuto da molti.
Realizzare una mostra dedicata al grande maestro diventa un atto dovuto da parte di un ente, come i Civici Musei di Udine, preposto alla conservazione e alla diffusione dell’arte. L’esposizione sarà allestita dal 18 maggio al 30 giugno nella chiesa San Francesco e in castello a Udine. Una manifestazione estremamente ricca e itinerante: è già stata realizzata a Monaco allo Staatliche Graphische Sammlung in der neuen Pinakothek, e a Bologna, Galleria d’arte moderna, e dopo Udine sosterà a Salisburgo al Rupertinum.
La mostra del capoluogo friulano si differenzia dalle altre esposizioni europee per la presenza di una ventina di dipinti a olio su tela collocati nel salone del Parlamento del castello e che saranno pubblicati nel catalogo edito dalla Marsilio e curato da Giuseppe Bergamini, direttore dei Civici Musei di Udine, e da Alberto Olivetti, docente ordinario di estetica all’Università di Siena. Un secondo volume, già pubblicato per le ultimissime mostre europee, dal titolo Giuseppe Zigaina. Disegni e incisioni 1947-2001, raccoglierà le grafiche dell’artista che saranno collocate nella chiesa di San Francesco.
Una mostra unica nel suo genere – realizzata grazie al generoso contributo della Banca Popolare di Vicenza –, che tenterà una lettura analitica dell’opera di Zigaina, delle sue diverse esperienze espressive e delle straordinarie sperimentazioni che spaziano da forme realistiche – presenti fino ai primi anni Cinquanta – per poi arrivare a un segno forte, quasi violento, e infine a un rigoroso controllo formale dove, come scrive lo stesso artista «il sentimento diventa simbolo».
Alvise Rampini
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