DALLA REALTA’ ALLA METAFORA

L’atteggiamento delle piangenti non è di ribellione, ma di contemplazione pietosa; sono consapevoli di una redenzione che passa attraverso il sacrificio e il dolore. Nell’aria di un verde-blu cupo la croce si assimila ai neri fusti d’alberi nudi; appartengono allo stesso paesaggio di anime dilacerate. II drappo rosso è uno stillare di sangue.

II crepitio bianco del velo della Madonna un singhiozzo trattenuto. Analogo lo spirito delle Crocifissioni. Quella del 1954 è costruita con il pullulare di un nero assembramento di contadini intorno al corpo di Gesù mentre viene issato suI patibolo. Le Crocifissioni di Poz sono sempre colte nella fase dinamica, come a dire che I’atto del martirio del Giusto si ripete continuamente nella storia.

Da qui l’inserimento di strutture diagonali divergenti: la croce da sinistra a destra, la scala a pioli in direzione inversa dentro una gabbia di linee-forza (corde di trazione, scheletri di alberi spogli, fiaccole, lance). Davanti al tumultuare scomposto della folIa degli aguzzini, dipinta con impeto gestuale concitato e sommario, il gruppo toccante della Madre e della Maddalena piange la tragedia.

La scena potrebbe essere anche quella di una sacra rappresentazione rurale del Venerdì santo, nella quale i borghigiani “inverano” il mistero del Calvario. Intorno al1954 la pittura si libera dal rigore degli schemi neorealisti. I Paesaggi, delineati nei tratti essenziali, appaiono intrisi di umori vegetali, di sentori di neve, di profumi d’erbe, ora chiusi in una tristezza severa che non si fa mai greve, ma sembra immersa in un’aura di pudore, ora cantanti di colore.
Sono i paesaggi delle Bressane, dei casolari sparsi, dei filari d’alberi, dei covoni di fieno, dei grovigli di macchie e arbusti.

Paesaggi ora lividi e invernali, ora ribollenti di linfe, irti di neri, di rosa, di verdi, di rossi, di violetti, di cilestri, in una sorta di partecipazione emotiva, dove il segno, che sempre sottende e sostiene le cromie, vibra di una dinamica elettrizzante.

Portone rosso vibra di contrappunti coloristici chiari e scuri; i tre covoni in primo piano sembrano shakespeariane presenze stregate. Cortile ha un respiro libero e arioso, a “macchia “, una pennellata fluida eppur compatta nelle stesure. Un ritratto a tutto tondo, vigoroso, e Bepi (1954).

La costruzione per piani-colore delinea un carattere più che una condizione sociale. La maglia nera si accorda tonalmente con la giacca bruno-panno.
Il volto è reso con nettezza di tratti. L’alberello spinoso alle spalle non significa solo una “sigla “; introduce a un mondo e a una qualità asciutta, decisa, di vita. Opera emblematica della gioventù ormai matura di Poz, svincolata dall’adesione a modelli, e A caccia di talpe (1955).

Il quadro si propone quale “lied” della solitudine, ma anche del rapporto vitalistico fra l’uomo e la terra; che non è soltanto un rapporto di utilità e di lavoro, ma si risolve in legame viscerale, messo in evidenza, del resto, dalla totale immersione del personaggio nella spoglia campagna invernale, di malinconica tenuita. Il contadino inginocchiato affonda le mani nelle zolle, come a cercarne le vene segrete, in un atto di venerazione. Datati sempre 1955 sono due disegni di Ortolano. Il primo toccato con qualche accenno di colore, il secondo in un bianco e nero essenziale e pastoso. Riflettono i ritmi antichi di una vita agreste non ancora sfiorata dai turbini e dai sussulti della modernita.

Con il loro ampio e lento gestire i contadini misurano il tempo sul volgere delle stagioni e sulle “rituali” cadenze del lavoro. Altri due disegni in bianco e nero, Riposo (1955) e Al pascolo (1957) delineano profili di giovanetti con una linea continua e lievemente modulata, di eleganza limpida, di poetico virtuosismo.

Nei tre contadini assopiti di Riposo in campagna del1955 (il ragazzo e l’uomo con camicie bianco-gelo, la ragazza in blusa rossa e gonna nera, la capigliatura corvina a coprirle il volto appoggiato sulle ginocchia) il rapporto tra figure umane e paesaggio assume un’alta tensione lirica.

Il gruppo è inserito in una bellissima e ampia prospettiva di campagna, con la fuga dei pali elettrici a scandirne, insieme allo svettare del pioppo, la profondità, e la “chiave” del carro in secondo piano a stabilire un collegamento emblematico con gli agricoltori. L’attenzione su di essi è sottolineata dalla piccola torre-cabina chiara che focalizza, sul fondo, lo spostamento a sinistra dell’ asse prospettico.

Coraggioso il taglio di Ragazzo con bicicletta (1955) che ambisce, toccando il segno, esiti di grandiosità compositiva. Il giovane è ripreso di schiena, chinato per riagganciare la catena della bicicletta. La testa resta completamente nascosta. Sopra il ripiano stradale, sintetizzato da una zona bruna, il fondo e neutro.

L’eliminazione di ogni elemento descrittivo di contorno carica lo spazio di una volumetria tattile, sonora, suggerita dall’imponenza massiccia del corpo, “rinforzata ” dalla cromie giallo-oro e dal pesante cangiare del nero dei calzoncini. Una variazione nel linguaggio dell’artista comincia ad affiorare nelle tele del 1957 , A caccia di rane, e del 1959 Uccellatore.
Impadronitosi di una ormai personale cifra compositiva, Poz rinnova la propria pittura sul filo di una costruzione meno “naturalistica “, più evocativa.

Come ha osservato acutamente Sabrina Zannier, “assistiamo alla detronizzazione dell’osservazione in favore della memoria e della rivisitazione mentale, alla traslazione della narrazione in evocazione”. Il che significa un colore più sciolto e “impressionistico”, figure abbozzate piuttosto che “finite”, una stesura cromatica “per sensazioni” liberamente smagliata e mobile.

A volte la natura crea un ambiente magico, dove si materializzano i sogni e le favole. I cacciatori di rane, nel “notturno” del 1957, diventano protagonisti di una visionaria saga contadina. Il cerchio bianco di luce della lanterna, vero nucleo “misterico” della composizione, sembra una Iuna venutasi a calare prodigiosamente nei fossi, per essere catturata, ammirata e amata.

E una vena fantastica ha Uccellatori (1957), di un ordito ritornato compatto, quasi tratto da un repertorio “secentesco” di genere. I tre giovani al centro, evidenziati contro un cespuglio nero, sembrano in attesa, o in ascolto, di uno straordinario evento. Alla fermezza piana dei campi dorati fa da contrasto I’agitarsi delle chiome degli alberelli, scompigliati da una brezza surreale.
Sullo straordinario livello della Crocifissione del 1958 si sofferma ampiamente, nel suo saggio, Carlo Sgorlon.

Ancora un Cristo issato sulla Croce a forza di braccia e di corde, ancora un intrecciarsi di diagonali come nella tela del 1954, ma con un’accentuazione della struttura piramidale. La piramidalità è molto più di una soluzione compositiva. Sottolinea la trascendenza dell’evento, assume il valore di un’ara sacrificale elevata al cielo, il collegamento “visibile” tra umano e divino. Diversamente, in ciò, dalla famosa Crocifissione di Renato Guttuso, del 1941, sviluppata con stravolta violenza espressionista tutta in senso orizzontale, come di un fatto avvenuto nella storia e “condannato” a perpetuarsi in essa. I personaggi non sono più solo accennati per viluppi grafici, come nell’opera dello stesso Poz di quattro anni prima; vengono invece descritti analiticamente, con nitore e lucentezza quasi “cinquecenteschi”.

Accentuato risalto drammatico è ottenuto dal profilo della donna incappucciata dal manto rosso in primissimo piano, e dalla contadina, di schiena, ammantata da uno scialle nero, la cui perpendicolarita compone a sua volta il motivo ideale di una croce, a suggerire, quasi, che la tragedia che si sta consumando e impressa nell’interiorita della persona. Le due figure si stagliano simili a masse giottesche.

Né appare casuale I’accostamento alla Crocifissione dell ‘ Abbattimento della quercia, pure del 1958, impostato sulla medesima trama costruttiva e stilistica, carico di una qual selvaggia violenza.
Che il paesaggio, in Poz, abbia il “temperamento” delle figure umane lo dimostra il raffronto fra le case avvolte nell’oscurità incipiente del crepuscolo, in Controluce, e la ragazza di Donna con scialle nero (1958): impostata con solennità sacerdotale al centro della tela, partecipa dello stesso sospeso riserbo di edifici, prati, trame alberate; e delineata con il medesimo incanto d’amore e comunica la medesima bellezza chiusa.

Un capitolo importante nei Paesaggi è quello delle Bressane, i cerchi di alberi a basso fusto usati un tempo dagli uccellatori. La Bressana del 1959 è dipinta durante I’estate, con un mareggiare di verdi e di terre e una pennellata morbida, cantante, sfioccata. In una dimensione più raccolta, “graffiata “, scompigliata, si colloca quella del 1960.


Sul prato coperto da un manto di neve segnato da tracce di sentieri si delinea la massa corposa verde-sporco dei cespugli. Il loro serpeggiare duro li rende simili a figure umane raccolte in se stesse, immerse nel dolore di una condizione che diventa male di vivere. Sui cielo acquoso chiazzato da un fioco riverbero di tramonto si stagliano, con risalto tagliente, le trame scure di qualche albero spoglio e spinoso, ramificato con malinconico nitore.
La pittura si avvia, ormai, verso esiti sempre piu stenografici e compendiari. Come in Chiocciole (1961), reso intricato da una scrittura magmatica e nervosa.

Lo Spaventapasseri (1962), costruito con una giacca rossa, un cappello issato su un rozzo rigonfiamento, si imposta su campiture sommariamente stese di verde e di azzurro cielo, dominato da una falce bianca abbrancata al tondo opaco di luna. c’e un che di fiabesco e di onirico in questa composizione che richiama, in dimensione peraltro di visionarieta infantile, vaghi modelli post-cubisti.

Il 1962 era I’anno in cui veniva girato in Friuli Gli Ultimi, scritto da David Maria Turoldo e diretto da Vito Pandolfi. Motivo conduttore del film era proprio uno spaventapasseri, con il quale il piccolo protagonista intesseva un dialogo di sogni e di paure. Negli anni sessanta la pittura si è fatta turgida, il colore fiammeggia: gomitoli di fil di ferro, barattoli vuoti, tracce di rifiuti che cominciano a inquinare la campagna, a offenderla e violarla, hanno scansioni nervose e balenanti. Rifiuti è appunto il titolo di una tela del 1962.

Sul campo di un devastato bruno si ammassano oggetti indistinti, nei quali il tratteggio “impazzito”, qualche tocco di blu fangoso, di bianco “impuro”, rilevano la consunzione e la corruzione. Su un cielo senza colore si stampa un arbusto rinsecchito, dai rami flosci e cadenti. I verdi scompaiono, cancellati dai rossi chimici, dai celesti al tungsteno. Sono gli stessi anni nei quali Michelangelo Antonioni, nel film Deserto rosso, “dipingeva ” con innaturati colori industriali il paesaggio ravennate devastato dalle raffinerie petrolifere.
Poz dunque anticipò le tematiche ecologiche della nostra epoca, proprio in virtù della sua nativa concezione della sacralità della terra.

Eppure, la violenza devastatrice della civiltà dei consumi non era vista come dato definitivo, come annuncio inequivocabile di una morte “totale”. La capacità di reagire, il senso di libertà, stanno in ciascuno di noi, sembrava dire I’autore friulano. Si incarnavano, ad esempio, nei volti della gente nomade, bruni come ali esotiche. Ed ecco, che nel 1965, Zingara, un viso ovale chiuso dai rossi intrecci del fazzoletto e dalla frangia di ca pelli neri, I’ azzurro degli occhi meravigliato e innocente, un colore allo stato puro svincolato dalle costrizioni della forma, che conserva integro I’impeto gestuale.

Le Due zingare vivono delle medesime accensioni cromatiche, seppur slontanate. Poz sembra richiamarsi al drammatico spiritualismo di Georges Rouault. Superando il dato veristico, la pittura si flette tra fauvismo ed espressionismo; ma al cupo moralismo giansenista del maestro francese, I’artista friulano sostituisce I’esplosione vitale. Peccato e redenzione sono detti con alternanza di furore aggressivo e di pacati equilibri.

La semplificazione formale, seppur fortemente caratterizzata, dei personaggi zingareschi rievoca, un po’ come in Rouault, la policroma Opulenta ieraticità bizantina e suggestioni della pittura romanica. Nei femminei volti zingareschi pare infatti trascorrere la traccia delle Pie Donne della Deposizione del XII secolo, nella cripta della basilica di Aquileia.

Ormai I’artista si indirizza verso la metafora, il simbolo, il dato sintetizzato di memoria. E non solo per aver completamente interiorizzato il proprio mondo poetico, che resta il motivo fondante, ma anche per l’influenza degli orientamenti estetici del momento, che in Friuli stavano allora vivendo la loro tardiva primavera: l’astratto-informale, l’ action painting, la visualità “optical”, la nuova figurazione.

Poz non li subisce passivamente; li utilizza, li piega alle proprie esigenze e al messaggio da comunicare, li rende, insomma, “altri”.
Reti e cerchio del1966 ha al centro un cerchio metallico dal quale concitazioni tramate fittamente di calligrammi e zigzagature si sprigionano come scariche elettriche dentro ampie tassellature opache.

Compare nel contempo la serie dei Nidi. Nell’incalzare dell’industrialismo e della corsa all’effimero e ai consumi, che sta travolgendo una civiltà arcaica eppur ricca di valori sempre attuali, Poz eleva il nido a emblema di raccoglimento, a nucleo di ideale rifugio.

Non casualmente, in una delle prime Composizioni su questo tema (ma il motivo sara spesso ripetuto), il nido arancione, impostato su riquadri scuri e rosa-bruno, si appoggia alIa biforcazione di un grosso tronco rugoso che rappresenta, potremmo dire, la continuità di tradizioni e di sentimenti ancestrali, mentre all’esterno si disegna il cerchio in fil di ferro del degrado.

In un altro Nido, sempre del 1967, i rossi divampano come carboni ardenti, fra un tumultuare di neri e lo sprizzare di una fiammata bianca: un segno, potrebbe sembrare, di focolare acceso, di calore, di sicurezza. A volte, al grumo di paglia ed erbe si sostituisce esplicitamente la sagoma semplificata, ridotta a mero simbolo bidimensionale, di un’abitazione rurale (Casa rossa e arbusti del1968).

La coppia di Ragazzi nascosti (1968) accanto al nido delineato appena nell’ombra folta di un ceppo e Ragazzo con nido (1969) non tracciano soltanto ricordi autobiografici di giochi crudeli, ma inconsapevoli, d’infanzia svaporati nel tempo (la scrittura del volto appena accennato, soprattutto nella seconda tela, è indicativa al riguardo); viene compiuto, per contro, un ribaltamento di significati: la caccia agli uccellini implumi cui i figli di contadini erano adusi nel loro scorrazzare per la campagna, alla riflessione di chi quell’esperienza ha vissuto e si è fatto adulto, appare una risposta a domande di certezza, sublima il profumo di una nostalgia di radici.

In due Evasioni del 1969, dal nido infuocato si leva a volo, nell’innocenza ariosa del cielo turchino, un uccello ad ali spiegate, dal piumaggio screziato di fremiti gestuali: fuga liberatoria verso i luoghi intonsi e felici della coscienza e della fantasia, o abbandono disilluso di fronte a una disgregazione incombente? Alcune opere farebbero propendere affermativamente per il secondo interrogativo. Così in Nido distrutto ( 1969), sul drappo rosso della “passione”, si disegnano le esili tracce curvilinee, nere e calcinate, dell’ossame di una culla, contro un cielo vuoto e uno scheletro di finestra.

In Filo e arbusti ( 1968 ) il magma di neri, di verdi marci, di tronchi, di ceppi, di erbe, di muschi, di fil di ferro arrotolato, schiacciati in uno spazio di ruvide malte, ricorda il transfert psicologico operato da Graham Sutherland su una natura violata, riecheggia le immagini fantastiche, sotterranee, lacerate, tormentose, vagamente surreali, del maestro inglese.

E tuttavia Arrigo Poz non è mai il pittore della disperazione. La sua presa d’atto di una realta turbata e sconvolta dall’irruzione di nuovi ritmi non adeguatamente “metabolizzati” si unisce a un ottimismo fondato sul lievitante richiamo a radici antiche, come dimostrerà la sua produzione successiva, sempre più manifestamente “ideologica ” .

Un’ideologia che, all’interno del linguaggio figurale, tenta la difficile conciliazione della civiltà di massa, di cui denuncia i guasti, con i valori e le individualità contadine, la serializzazione efficientista con la tensione spiritualista, lo slancio modernizzatore con la rivendicazione orgogliosa di un identità profondamente vissuta.

tratto dal libro “Poz – Cinquant’anni d’arte” – ed. Electa