Nell’autunno dello scorso anno – 2013 – e precisamente il 5 ottobre, con analogo gesto compiuto da Mario Monicelli il 29 novembre 2010, gettandosi dalla finestra della sua abitazione in via dei Gracchi nel quartiere Prati a Roma, si è tolto la vita il noto regista del cinema neorealista italiano Carlo Lizzani all’età di 91 anni – era nato il 3 aprile del 1922 – .
A proposito dell’età precedentemente, allorché aveva raggiunto i 90 anni, aveva detto che costituivano “la fine di una scommessa”, e uno stile di linguaggio “lapidario” così come risuona ancora tale quanto da lui lasciato scritto in merito al suo gesto “mortale” ai suoi due figli, ed implicitamente alla moglie molto malata da tempo, in un biglietto: “stacco la spina”.
La causa? si può supporre la depressione – un male che toglie ogni spinta al “fare” – unitamente alla situazione di salute molto compromessa della moglie. Questo calo di interesse per un’ulteriore prosecuzione della vita ben contrasta con quel suo vivere che egli ha sempre portato avanti nella cifra di un chiaro impegno civile – politico oltre che artistico.
Esemplificando, dal 1979 al 1982 ha diretto la “Mostra del Cinema di Venezia” dandole un’impronta di innovazione che, come ha precisato Alberto Barbera Direttore della Mostra Cinematografica di Venezia e del Museo del Cinema di Torino, da allora è stata considerata “se non copiata” dagli altri Festival del mondo i quali non hanno potuto assolutamente ignorarla; ha scritto “storie del cinema italiano” che costituiscono un indiscutibile punto fermo della letteratura cinematografica, tra varie altre attività di natura saggistica mirata a valorizzare talenti del cinema italiano non molto noti se non ignorati.
Pertanto la sua assenza a settembre del 2013 alla “Mostra del Cinema di Venezia” era stata notata ed ora appare come un segnale di una sua psicologica stanchezza di vivere. Ma al cui proposito ritengo ben esemplari le parole di Ermanno Olmi che si profilano come un invito ad un silente rispetto di quel gesto mortale: “non dobbiamo nemmeno cercare delle spiegazioni. È un atto misterioso e dobbiamo solo rispettare questo mistero”.
Doveroso invece è ricordare la traccia della sua attività di cineasta, richiamando i suoi inizi, quando fu cosceneggiatore e aiuto regista di Roberto Rossellini nel 1948 in “Germania anno zero”, ed il suo prosieguo, in cui, dopo l’incontro con Giuseppe De Santis, diveniva sceneggiatore di suoi fil di indiscutibile rilevanza sociale – un esempio: “Riso amaro” del 1949 che fu opera candidata all’Oscar – e che poi, nel 1951, firmava il suo primo film da regista “Achtung banditi” che lo impose all’attenzione della critica.
Inoltre, per indicare la sua perdurante giovinezza “culturale”, è confacente ricordare ancora che allorché cinque anni fa il Festival di Pesaro dedicava “l’omaggio” alle sue opere, Lizzani riorganizzava la sua filmografia prevalentemente per temi al posto del dato cronologico di origine, per cui, richiamando alcuni degli accostamenti da lui effettuati nella sua oltre trentina di film vi sono in ravvicinamento “Cronache di poveri amanti” (1954) e “Fontamara” (1980), “Il gobbo” (1960) sulla Resistenza a Roma e “Il processo di Verona” (1962)” concernente la fine del fascismo, “Banditi a Milano” (1968) sulla Banda di Cavallero e “Un’isola” (1986) sui confinati per destinazione imposta dal fascismo, “Mussolini ultimo atto” (1974) e “Caro Gorbaciov” (1988) nella cifra della fine del fatto politico dittatoriale.
Personalmente incontrai Carlo Lizzani alla Vasca Navale di Roma nel 1960 negli stabilimenti che erano di Dino De Laurentis, allorché, con l’organizzatore generale dott. Fausto Saraceni preparava “Il carabiniere” a cui la censura impose perfino il cambiamento del titolo, aggiungendo parole donde il titolo divenne “Il carabiniere a cavallo” (e a film finito tanti furono i tagli sulle battute per “censura politica”!) ed al cui proposito Lizzani avrebbe potuto ben dire, in rapporto a questo suo film “questa volta” – perché la censura era a lui ben nota – “mi hanno rotto le scatole fin da primo fotogramma”.
Altro rompitore di scatole per lui era Padre Morlion, premesso a vigilare negli anni cinquanta sull’ortodossia contenutistica dei film essendovi “la guerra fredda” fra comunismo e democrazia, il quale definiva Lizzani un regista di scarso valore per il tratto politico dei suoi film, perché, per lui, arte e politica erano due realtà estranee l’una all’altra.
Ma il futuro cinematografico ha smentito, nei fatti e nell’estetica il giudizio di Padre Morlion incentrato nelle linee di un’estetica “crociana” e Lizzani giustamente è stato inquadrato nel profilo di un regista di grosso spessore, nel novero dei “Grandi”.
Marcello De Stefano da Friuli