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NELLA RICORRENZA DEL QUARTO ANNO DALLA MORTE DI CARLO SGORLON

LA SACRALITÀ DEL MONDO: SGORLON CONTROCCORRENTE  (di Marcello De Stefano)

(dal Messaggero Veneto del 23.12.2013)

Il giorno di Natale di 4 anni fa – 2009 – lo scrittore e caro amico Carlo Sgorlon chiudeva gli occhi e per sempre ci lasciava, ma ciò nella sua presenza fisica, non con la sua “anima”, tanto è vero che vi furono, poi, svariate, e alcune prolungate molto nel tempo, manifestazioni culturali incentrate sulle sue opere di narrativa, con approfondimenti e svisceramenti per opera di critici, studiosi, esperti di livello universitario, dei contenuti specifici dei suoi singoli libri.

E venne riconfermata, riscontrandolo con arricchimento di notazioni, la sua contrapposizione decisa e costante al dato del nichilismo, distruttore a suo giudizio di ogni realtà costruttiva umana, e dello storicismo qualora venga inteso come divinità in quanto per lui è per niente verificabile poiché la realtà è un bagno di sangue continuo e pilotato da una scaltra volontà di potere come più volte lui anche mi diceva.

Si contrapponeva così alla cultura maggioritaria predominante in nome di una necessaria risacralizzazione della natura e, quindi, di ogni realtà di vita, invitando la gente friulana al recupero del suo senso tipico della misura, del parco, ed anche riproponendo la ritualizzazione di quella sua storica devozione che ne faceva un popolo fondamentalmente cristiano.

“Friulani, ritornate ad essere parsimoniosi”, era una delle sue espressioni molto sentita e stando a quanto sta accadendo nel mondo appare come più che mai appropriata quale contributo ad un riavvio di quell’economia che nel denominatore comune del grandioso come meta – un mezzo è il capitalismo sfrenato – ha messo in ginocchio oggi l’intero pianeta.

Nell’immediato secondo dopoguerra, dato che ci frequentavamo con una fraterna solida amicizia fin dal tempo del liceo, mi confidava che viveva una forte crisi in rapporto ad una scelta di vita tra “cristianesimo” e “socialismo”, mito allora politico che si presentava come la verità umana e sociale finalmente partorita “dalla faticosa storia sociale dell’umanità”, mito che parlava di un uomo nuovo finalmente messo nella condizione di essere buono e solidale, cioè, in armonia, come si diceva allora, con la sua profonda natura.

Ma che dramma per lui constatare, un esempio, il disprezzo reciprocamente vissuto, dell’uno contro l’altro, che constatava esistere fra i suoi insegnanti di un’università – la Normale di Pisa – tutti uomini che, in quanto progressisti, dovevano esemplificare quell’uomo nuovo fatto di bontà e di solidarietà di cui si diceva.

Ma un’altra delusione era data dalla constatazione che non erano per niente diversi i suoi compagni di studio, anch’essi progressisti, e quindi pretesi uomini nuovi, tant’è vero che constatava che, altro esempio, si vantavano di essere riusciti ad aggirare una prostituta e quindi ad usarla e poi a non pagarla, proponendosi poi, questi pretesi uomini nuovi, buoni e solidali come istruttori per simili comportamenti a favore degli altri loro compagni di studio.

Sono solo due esempi di tutta una lunga continua delusione, di cui mi diceva, che il cosiddetto mondo nuovo “in fieri” nell’ideale del socialismo gli faceva vivere coinvolgendolo, e al punto tale che anche la sua salute ne risentì.

Così, quando scrivevamo assieme il “soggetto – trattamento” di un mio film che avrei dovuto realizzare con la Titanus – La campana sul mare – e che invece non feci  perché non accettai le richieste di tagli propostemi dalla produzione, Carlo lavorò con me a casa sua sdraiato sul letto, ove era solito stendersi per la stanchezza che lo affliggeva, e ricordo che anche mi diceva “io ho bisogno di una moglie molto materna”, come di fatto poi ha avuto la fortuna di avere.

Ed era psicologicamente coinvolto in modo che mi ricordava Gogol – allora studiava molto la letteratura russa dell’800 – che del resto egli citava e che, con altre diverse manifestazioni,  viveva tuttavia anche lui quel dramma del male sociale che tanto aggrediva l’animo di Carlo Sgorlon.

Facendo addirittura fatica a dormire, e avendo anche incubi notturni e al punto tale da temere di non riuscire a laurearsi, come mi confidava, cosa che invece realizzò ed in maniera brillante.

Le domeniche – io avevo cominciato a dipingere alla fine del 1948 – egli veniva a trovarmi e teneva per mano la sorellina di pochi anni, che poi lo ha da tempo preceduto nella morte,  e le stringeva la mano quasi a voler sentire concretamente la bellezza e la poesia della purezza, dell’innocenza, cioè, di quelle caratteristiche che l’uomo può veramente avere e con cui lui aveva grande necessità d’incontro.

Da questo suo dolore è nato per contrastiva opposizione, il rasserenante opposto suo mondo poetico, ricco di riaffermate verità umane e divine, nel denominatore comune del sacro e della lealtà e mi augurerei tanto che quanto qui ora, dopo quattro anni dalla sua morte, rivelato, del calvario formativo di Carlo, venisse eletto da colui che, divenuto Carlo un affermato scrittore di successo, gli spedì una lettera con dei proiettili, minacciando di farli un giorno o l’altro esplodere su quelle sue mani a servizio, con la penna, dei padroni (sic!).

Come si vede è un discorso che si qualifica di per sé e lascio l’aggettivazione, di certo non benevola, a colui che sta leggendo queste mie righe.

Quanto a me, da cristiano convinto dell’esistenza della realtà di vita post-mortem, trascendente, preciso che per quanto Carlo ha fatto di vero e di bene con la sua arte, ritengo che ora egli finalmente si trovi nella luce ben guadagnata e nella felicità di Dio.

Di quel Dio il cui incontro Carlo ha realizzato nel tempo: nel periodo del liceo la fede non c’era ancora in lui, e ne parlavamo – io ero già nella fede – e ricordo quanto fu lunga la nostra discussione in merito, dopo aver visto assieme all’udinese cinema San Giorgio, “La bellezza del diavolo” di René Clair.

Marcello De Stefano