Ho conosciuto bene Marcello De Stefano negli anni ottanta quando iniziai a collaborare per il suo film-documentario su Medjugorje.
In seguito diventammo molto amici.
Da lui ho imparato molte cose: è colto, di vedute molto larghe e di grande abilità oratorie, onesto e corretto nei rapporti umani con una visione profondamente cristiana della vita e sempre disponibile ad aiutare il prossimo bisognoso dei suoi consigli o dei suoi interventi.
Gradualmente mi raccontò la sua vita: laureato in giurisprudenza nel 1953, superò un concorso nazionale e cominciò a frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia” di Roma ed ebbe l’occasione di conoscere e frequentare registi molto famosi, con alcuni dei quali collaborò anche come aiuto-regista o sceneggiatore.
Mi rimase sempre impressa la sua scelta di coerenza, allorché, avendo vinto un concorso per la regia, al secondo canale della RAI, decise di tornare in Friuli per il bisogno che aveva di autenticità etica e il rifiuto di acquisizione di una mentalità di compromessi.
Tutti sanno che in Friuli ha contribuito alla creazione di una cinematografia “friulana”, da affiancare alla produzione letteraria locale.
Molti miei dialoghi personali con lui hanno come punto di riferimento una comune passione: Theilhard de Chardin, sul cui nome fondò egli stesso una sezione presso il “Centro Ricerche e Studi” di Udine, di cui è stato promotore.
Marcello, oltre che poeta e pittore innovativo, è autore di molti film che riflettono fedelmente il “Manifesto d’arte proclamato nel nome di Teilhard” o “Manifesto vivente” (con il quale voleva riconsegnare alla cultura, nella sede estetica, quell’uomo “totale” di cui parla Teilhard de Chardin, del tutto diverso da quell’uomo “mutilo” visto da un angolo x, proprio di una data concezione filosofica e, dunque, parziale per nascita.
Emblematico, a proposito il suo ultimo film, che ebbe molto successo di pubblico e sul quale scrissi un articolo pubblicato sulla Panarie del 2006:
LA PACE: VARIAZIONI SUL TEMA
– Reportage dal Friuli-
Il regista Marcello de Stefano ha sempre dichiarato di appartenere culturalmente e spiritualmente al Friuli, che vanta nel passato una serie di valori che oggi non vengono purtroppo molto considerati. In effetti il suo cinema è un continuo richiamo a questi valori genuini di identità cristiana propri del Friuli storico.
Anche questa sua ultima opera vuole trasmettere valori positivi ed è apportatrice di un forte messaggio di pace per l’umanità intera. Il punto di partenza è proprio riferito al contesto friulano.
La tecnica usata da De Stefano va controcorrente perché è antitetica rispetto a quella usata oggi dal consumismo mediatico che banalizza ogni forma espressiva che richiami determinati valori culturali ed etici ed è finalizzata ad attirare il consenso della massa per sfruttarne l’ignoranza e l’emotività a scap
ito della ragione.
Con un abilissimo stratagemma egli recupera il tipo di programmazione filmica che avveniva nelle nostre sale cinematografiche del dopoguerra, la quale si proponeva di informare e formare gli spettatori proiettando sia un cinegiornale che un documentario di attualità prima del film vero e proprio.
Il cinegiornale, da Lui reinventato, mette in evidenza una forte esperienza ecumenica raccontata nell’Abbazia di Rosazzo dal rettore don Dino Pezzetta. Prima, però, l’attenzione dello spettatore è focalizzata sull’abbazia stessa, un luogo intessuto di storia: risale infatti all’XI secolo, dopo l’arrivo dei monaci agostiniani, la costruzione della chiesa dedicata a san Pietro (inaugurata nel 1070).
Successivamente passò ai Domenicani che la tennero fino alla soppressione; e solo negli anni Settanta, grazie all’impegno del vescovo di Udine, mons. Alfredo Battisti, l’Abbazia di Rosazzo venne inserita tra le realtà da ristrutturare dopo il terremoto del 1976.
Ora Rosazzo è un centro di spiritualità e di incontro interreligioso e dialogo ecumenico che vede periodicamente a confronto le chiese cristiane ortodosse di Grecia, Africa, Turchia, Serbia-Montenegro, Armenia, Bulgaria, Romania, Russia.
Nella reinvenzione del documentario, che precedeva il film, appaiono le bellissime scene nel museo del Canova che terminano sulla statua della pace.
Poi, documentando l’arte di un’intera vita di un pittore (Michele Piva) che è realizzata in opposizione alla cultura del nulla, oggi molto imperante, vi è una prima parte del film vero e proprio.
Questo conclude con quattro via crucis realizzate nella sua vita artistica dallo stesso pittore esposte nel Battistero della Basilica di Aquileia.
L’incontro di De Stefano con questo evento espositivo è stato provvidenziale per la realizzazione del film-saggio. La Basilica stessa di Aquileia è emblematica per indicare il nucleo storico dell’identità friulana che si riflette nell’antica patria, come tutti sanno.
La mostra “cinematografata”, che ha avuto un forte impatto emotivo sul regista, si rifà stimolo allo spettatore perché un certo tipo di arte, massima espressione dell’interiorità dell’uomo, è capace di dare delle risposte concrete all’assurdità del dolore umano, dolore che assume il suo più alto significato e la sua rilevanza salvifica, come dice il film, in quello di Cristo, venuto a divinizzare ognuno persona.
E’ un messaggio, questo, che si pone coraggiosamente contro l’attuale cultura nichilista, foriera di comuni atteggiamenti di indifferenza che non favoriscono, certo, la pace individuale e sociale.
Il film poi si distacca dalla realtà prettamente locale per travasarne i contenuti assiologici in una dimensione più universale, dove l’uomo è posto al centro come termine ultimo dell’asse evolutiva in diverse fasi che mettono in evidenza lo sviluppo della sua personalità ( dalla complessità del film: dalla bionegenesi, all’antropogenesi, dalla noogenesi alla cristogenesi) che porta, una volta cessata la fase espansionistica, a quella convergente, cioè alla sua pienezza evolutiva).
Lo stratagemma usato dal regista friulano è molto efficace: infatti nella seconda parte del film la protagonista si trova su
una piccola imbarcazione da gara-Topper – sul mar Rosso che è continuamente minacciata da squali, simbolo delle negatività che vorrebbero distruggere l’uomo durante il suo cammino evolutivo.
L’esperto navigatore pilota dovrà condurre la barca fuori dai pericoli: metafora efficace per indicare la maturazione che dovrà raggiungere l’uomo attraverso l’affrancamento da se stesso e dai suoi primordiali istinti che lo accomunano agli animali più aggressivi.
In questo film-saggio è riflesso il risveglio della coscienza sociale – il sangue di Cristo versato per amore ne è il concreto supporto, evidenzia il film – che ha come punto di riferimento il microcosmo friulano che si fa universale.
Questi per l’autore rappresenta una “cifra universalizzante”, nel senso che il recupero dei valori storici e solidaristici di una realtà locale complessa, quale quella dell’anima storica friulana, viene richiamata quale possibile modello universale da recuperare in antitesi all’appiattimento culturale ed etico causato dallo stillicidio massificante dell’attuale globalizzazione tendente a coinvolgere lo stesso Friuli.
Globalizzazione la quale vorrebbe estendere prepotentemente a livello planetario un modello unico di cultura, strutturato nel principio e nel fine unici dell’economia.
Questo fenomeno è elemento perturbatore della pace sociale per diversi motivi sottintesi, e implicitati, in questa sua splendida opera attraverso un’analisi geniale del divenire, farsi, della persona umana.
La stessa scelta del regista, è già di per sè un’aperta polemica al mondo mediatico attuale allineato con il rullo compressore della citata globalizzazione tout cour che nella sua avidità vorrebbe anestetizzare le coscienze rovesciando i valori più genuini, in buona parte ancora esistenti, del passato.
Molto innovativo è il linguaggio che il regista utilizza per trasmettere il suo profondo messaggio di pace e speranza. Il suo è un film di pensiero, che sulle orme di Bergman sostituisce la parola e l’immagine all’azione.
E’ un modo di procedere controcorrente in aperta polemica contro lo stile mediatico moderno che vuole coinvolgere lo spettatore solo emotivamente attraverso lo scorrere veloce di immagini, ma che non gli concede il tempo di pensare e riflettere secondo una finalità mirata alla sola logica del profitto.
Coerentemente, le inquadrature, gli espedienti tecnici-formali sono prioritariamente a servizio della parola perché ne mettono in risalto i contenuti più profondi del pensiero, e la “bellezza della parola” si affianca a quella dei momenti lirici, di cui un buon esempio è costituito dall’insieme delle riprese all’interno della Basilica Aquileiese accompagnate dal sublime adagio di Albinoni, i particolari carichi di significato umano e trascendente della via crucis, i riferimenti alle diverse violenze che spesso la cronaca “storica” ci riporta – “alcuni esempi”.
Chi assiste a questo film ha l’impressione immediata di trovarsi di fronte ad un’opera ricchissima di contenuti e al termine della visione ne esce toccato interiormente e magicamente spinto a risvegliarsi dall’abitudinario alienante e consumistico torpore.
Questo, infatti, non ci consente di prendere coscienza dei nostri errori e di quelli della società della globalizzazione “anti-pensiero”.
Come giusto antidoto il narrato pensiero sfocia nella trascendenza divina-cristica coniugata con l’universo umano, ricco di passioni e di contraddizioni che in quella trascendenza concretizzano un naufragio salvifico.
E ciò è ben reso cinematograficamente, ricalandoci nella quotidianità del vivere, dalle parole recitate dall’attrice nel finale. Esse concernono una composizione poetica di Marcello De Stefano e si fanno suggerimento di un comportamento per ognuno al fine di collaborare ad un clima di pace: (divenire noi nda) ”critici/ tutti di tutto/ il non funzionato”.
Il regista Marcello de Stefano con questa sua sublime opera ha raggiunto un altissimo grado di maturazione umana ed artistica.