dal Messaggero Veneto del 04/10/02

Atmosfere e sogni del pittore friulano scomparso

La sensibilità di Tubaro
di LICIO DAMIANI

Si è spento all’alba del 3 ottobre 2002 dopo una lunga malattia, il
pittore Renzo Tubaro. Artista “fuori dalle righe”, appartato e
affascinante, aveva un temperamento mite e sensibile, trepido e
delicato.

Era nato a Codroipo nel 1925.
Dalla grazia degli antichi splendori veneziani, assorbita durante agli
studi all’Accademia, dove fu allievo di Felice Carena, era rimasto
profondamente segnato e a essa si richiamava come a una sorta di
paradiso perduto. Nelle opere giovanili, contadini, operai, volti di
ragazzi, di donne, di vecchi, paesaggi rigogliosi, venivano osservati
come schegge o frammenti di una festa della luce che arricchisce la
quotidianità più minuta.

Tema ricorrente era quello delle Maternità: dicono con delicatezza
poetica profondi legami di sentimento e il radicamento ai valori della
famiglia.
La cultura di Tubaro era tutta imbevuta di succhi e di reminiscenze del
periodo d’oro della grande pittura classica. Di fronte alle avanguardie
e alle sperimentazioni estetiche egli manifestava un qualche scoramento
e disorientamento, per l’impossibilità temperamentale, culturale,
addirittura poetica, di adeguarvisi. Il suo cruccio era di non riuscire
a vivere appieno la contemporaneità.

A modelli aveva eletto Tiziano, Veronese, Tintoretto, Tiepolo, di cui,
appuntate sulle pareti, conservava numerose riproduzioni, assieme a
foto del suo maestro Carena e a note e pensieri di taccuino, nei quali
fissava impressioni ed emozioni. Le opere si traducevano, così, in
elegie di un tempo perduto.

Rivivendo il passato, ne registravano la distanza ed era questa
inquietudine a renderle misteriosamente attuali.
Un capitolo importante fu costituito dalle Nature morte, che, impostate
negli anni giovanili con salda struttura, finirono progressivamente per
sfaldarsi, passando da toni spenti e come appassiti a improvvisi
trasalimenti e riverberi, spesso al limite di soluzioni gestuali.

La nostalgia dell’artista per una lontana stagione che, in una
quotidianità turbata, contraddittoria, priva di saldi riferimenti, gli
appariva illusivamente serena, misurata su certezze e stabili
equilibri, si esprimeva in sfrangiature di velati colori, come percorse
da sussulti e da impercettibili tremori.

La metafisica impassibilità degli “oggetti” di Morandi diventava in
Tubaro spleen crepuscolare. Nel suo studio, dapprima in via dei
Torriani, poi in via Chisimaio, egli componeva i “teatrini” di fiori,
di vasi, di fogliame, sui quali la pittura si soffermava con soffuso
amore.

Notevole rilievo nella storia dell’arte sacra locale del secondo
dopoguerra assumono i cicli dipinti negli anni Cinquanta e nei
primissimi anni Sessanta nelle chiese di San Daniele, Caneva di
Tolmezzo, Ribis e Rizzolo di Reana, nel duomo di Codroipo e nella
parrocchiale di Billerio di Tarcento.

Crocifissioni turbinose di gigantesche figure e di minerali
fluorescenze, trionfi angelici di ventosa leggerezza, personaggi
biblici corposi o pausati da levità di fiaba di una provincia umile,
Adorazioni dei Magi intessute di gemmee luci primaverili, sfolgoranti
Natività e “masaccesche” Botteghe di Nazareth, un’Assunta che sembra
rotolare nello spazio, fatta leggera da candidi panneggi, una
Trasfigurazione abbagliante, compongono un grande sogno immobile.

L’impressione generale è di musicale nitore, di una tessitura
primaverile di luci gemmate, di atmosfere cromatiche di limpida
vivezza.
Suo capolavoro resta la decorazione della chiesa di Madonna di Strada,
a San Daniele, ispirata ai misteri del Rosario e alla celebrazione
della Vergine.

Le tante figure, nate da un attento e scrupoloso studio preparatorio,
da un’osservazione delle fisionomie della gente del luogo chiamata a
posare, calano l’iconografia ereditata dalla tradizione in un
linguaggio arioso, forte, nutrito di robusti umori rurali.

Si impostano con sonorità cromatiche in spazi appena accennati o
addirittura stemperati in una chiarità astratta, in scenografie
architettoniche semplificate e “razionalizzate” alla maniera
novecentista o soltanto suggerite da pochi e sintetici elementi.

Nel loro taglio pietroso, monumentale, c’è una qual eco del grafismo
neorealista. Allora il neorealismo viveva la sua grande stagione e in
Friuli segnava un’affermazione di identità “etnica”, stimolata dalla
parola e dall’azione di Pier Paolo Pasolini, che vide e apprezzò gli
affreschi di Tubaro.

Echi neorealisti sono ravvisabili in molte caratterizzazioni
“contadine” del ciclo pittorico sandanielese; portano, con i venti
della grande stagione veneziana, semi, pollini di friulanità. Immersi
in atmosfere limpide, di mattinale, quieto splendore, hanno un che di
asprigno, di quietamente innocente, com’era nel temperamento dell’uomo.