(tratto da “Semi di contemplazione” di Thomas Merton)

La solitudine fisica, il silenzio esteriore ed un reale raccoglimento sono tutti moralmente necessari a chi vuole condurre una vita contemplativa; ma, come ogni altra cosa del creato, questi non sono altro che mezzi per un fine, e se non comprendiamo il fine faremo un cattivo uso dei mezzi.

Non ci ritiriamo nel deserto per fuggire gli altri, ma per imparare a trovarli; non lasciamo gli altri per non aver più nulla a che fare con loro, ma per trovare il modo di far loro un bene maggiore. Ma questo è sempre e soltanto un fine secondario.
Il solo fine che comprende tutti gli altri è l’amore di Dio.

Come può la gente agire e parlare come se la solitudine fosse cosa di nessuna importanza per la vita interiore? Solo coloro che non hanno mai sperimentato la vera solitudine possono asserire con leggerezza che questa non ha importanza e che solo la solitudine del cuore ha importanza! Una solitudine deve condurre all’altra!

La vera solitudine non è qualcosa al di fuori di voi, non è l’assenza di uomini o di suoni intorno a voi: è un abisso che si apre nel centro della vostra anima.
E questo abisso di solitudine interiore è creato da una fame che non sarà mai soddisfatta da cosa creata.

Solo attraverso fame, sete, dolore, povertà e desiderio si trova la solitudine, e l’uomo che ha trovato la solitudine è vuoto, come se fosse stato vuotato dalla morte.
Egli si è spinto oltre ogni orizzonte. Non rimangono direzioni in cui incamminarsi. È questo un paese il cui centro è dovunque e la cui circonferenza non è in alcun luogo. Non lo si trova viaggiando, ma restando fermi.

Pure proprio in questa solitudine si iniziano le attività più profonde. Qui si scopre l’atto senza moto, la fatica che è profondo riposo, la visione nell’oscurità, e, al di là di ogni desiderio, un appagamento i cui limiti si estendono all’infinito.
Sebbene sia vero che la solitudine è dovunque, per trovarla esiste un meccanismo che ha qualche relazione con lo spazio reale, con la geografia, con l’isolamento fisico dalle città e dai paesi degli uomini.

Ci dev’essere almeno una stanza, o un angolo dove nessuno vi trovi, vi disturbi o vi noti. Dovete essere in grado di separarvi dal mondo, di rendervi liberi, sciogliendovi da tutti quei sottili legami e sforzi di tensione che, con la vista, con il suono, con il pensiero, vi legano alla presenza degli altri uomini.

«Ma tu quando preghi, entra nella tua camera e, chiuso l’uscio, prega il tuo Padre in segreto…».

Quando avete trovato un simile luogo, siatene contenti, e non turbatevi se una buona ragione ve ne allontana. Amatelo, ritornatevi appena potete e non siate troppo solleciti nel cambiarlo con un altro.
A volte, le chiese delle grandi città sono luoghi dì solitudine, quieti e pacifici; grotte silenziose dove un uomo può trovare rifugio dall’intollerabile arroganza del mondo degli affari.

Qualche volta si può essere più soli in una chiesa che in una stanza della propria casa. A casa vi è sempre la possibilità di essere scovati e disturbati (ma questo non deve provocare irritazione perché spesso è l’amore che lo richiede); invece in queste chiese tranquille si rimane soli, senza nome, indisturbati nell’ombra; vi si trovano solo pochi anonimi sconosciuti nella luce tremolante delle lampade votive e tra gli atteggiamenti strani, impersonali di brutte statue.

La mancanza di gusto estetico e lo squallore di alcune di queste chiese ne fanno luoghi di ancor maggiore solitudine, anche se nessuna chiesa dovrebbe mai essere brutta o di gusto volgare; se lo è, poco importa, purché vi regni l’oscurità.

Vi dovrebbero sempre essere delle chiese quiete ed oscure, nelle quali gli uomini possano trovare rifugio. Luoghi dove inginocchiarsi in silenzio. Case di Dio, ripiene della Sua presenza silenziosa. Colà, anche chi non sa pregare potrà sempre rimanere tranquillo e respirare un poco. Ci sia un posto dove voi possiate respirare con calma e tranquillità, senza aver sempre il fiato mozzo.

Un luogo dove la vostra mente possa rimanere inattiva e dimenticare ogni preoccupazione, immergersi nel silenzio e adorare il Padre in segreto.

Non vi può essere contemplazione là dove non vi è segreto.
Abbiamo detto che la solitudine necessaria al contemplativo è soprattutto qualcosa di interiore e di spirituale. Abbiamo ammesso che è possibile vivere in una profonda e pacifica solitudine interiore anche in mezzo al mondo e al suo frastuono. Ma questa verità è qualche volta misconosciuta in religione.

Ci sono uomini consacrati a Dio la cui vita è piena di inquietudine, e che in realtà non hanno alcun desiderio di star soli. Ammettono, in teoria, che la solitudine esteriore è’ cosa buona, ma insistono nel dire che è molto meglio custodire la solitudine interiore pur vivendo in mezzo alla gente.

In pratica la loro vita è divorata dall’attività e soffocata dai loro molteplici attaccamenti. La solitudine interiore riesce loro impossibile. La temono, fanno tutti gli sforzi per sottrarvisi e, ciò che è peggio, cercano di attirare anche gli altri in un’attività insensata e divorante come la loro. Sono grandi promotori di imprese inutili. Amano organizzare incontri, banchetti, conversazioni e conferenze. Stampano circolari, scrivono lettere, parlano per ore al telefono per raccogliere un centinaio di persone in una sala che poi riempiono di fumo, di chiasso, di grandi battimani e di ovazioni reciproche, finché tornano a casa barcollanti, dandosi a vicenda dei colpettini sulla spalla con la ferma convinzione di aver fatto cose grandi per la diffusione del Regno di Dio.