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XIX domenica A Mt 14, 22-32

 

di p. Ermes Ronchi

Gesù dapprima assente, poi come un fantasma sul mare,

poi come voce che incoraggia, infine mano salda che ti afferra.

Un crescendo nell’esperienza di Dio, dentro una liturgia cosmica di onde, di vento, di buio, storia delle nostre tempeste e paure, dei miracoli invocati, ricevuti e subito dimenticati, perché i miracoli non bastano mai.

Siamo sul lago di Galilea. Il paesaggio che Gesù più amava.

Un paesaggio d’acque è il primo di tutti i paesaggi, la Bibbia comincia con una immagine d’acqua. Una danza dello Spirito sull’acqua è il primo movimento della Bibbia.

Se portiamo questa immagine nel campo della nostra vita personale essa diventa il simbolo dei nostri oceani interiori che ci minacciano e al tempo stesso ci generano.

Il contesto. Gesù ha appena moltiplicato i cinque pani e i due pesci. È stata una festa, tutti insieme in quella cucina, anzi in quella cattedrale con l’erba per pavimento e il cielo per soffitto, e dietro il lago come abside.

Ma ad un certo punto Gesù, dice Matteo, costrinse i suoi a salire sulla barca. Costrinse, notiamo il verbo inusuale, aspro. Ma lui, Maestro del cuore, ha fretta, è brusco quando c’è aria di trionfi, di successi, di ovazioni, non è quella la scuola di formazione che vuole per i suoi, e allora li costringe ad andare via. Invece non ha mai fretta quando c’è da curare, da sfamare, da ascoltare.

Il nostro posto non è nei successi e nei grandi risultati, ma in una barca in mare, mare aperto, dove prima o poi durante la navigazione della vita verranno acque agitate e vento contrario.

Una grande nave ormeggiata nel porto è indubbiamente al sicuro. Ma non è per questo che le grandi navi sono state costruite.

Lui rimane a terra per congedare la folla, bellissimo, per salutarli bene, a uno a uno, occhi negli occhi, i cinquemila uomini appena sfamati e lui certamente aggiunge anche le donne e i bambini (invento lo so, ma è lo stile di Gesù) bambini e donne che gli evangelisti non hanno neanche considerato.

È commovente questo Gesù che passa di incontro in incontro; saluta tutti e poi profumato di abbracci e di gioia, si reca sul monte, in disparte, a pregare, desidera l’abbraccio del Padre, e sarà lungo una notte intera.

Poi, verso l’alba, sente il desiderio di tornare dai suoi. Di abbraccio in abbraccio: così si muoveva Gesù.

A questo punto il vangelo racconta una storia di burrasca, di paure e di miracoli che falliscono.

Sul finire della notte venne verso i suoi.

E a noi pare, invece, di essere abbandonati, soli con le nostre sole forze, dentro le burrasche della vita. Eppure dire: da solo con le mie sole forze, è una affermazione cristianamente insensata, perché intrecciata alla mia forza c’è sempre la sua forza.

Gesù non è mai assente, è già con i discepoli, da subito. Lui è la sorgente della forza dei rematori che non si arrendono al vento contrario, lui è nella presa robusta del timoniere, lui è nel coraggio condiviso, è negli occhi di tutti fissi a Oriente a scrutare quanto manca della notte.

E la barca, simbolo di me e della mia vita fragile, di me e della mia fede corta, della mia comunità e dei suoi problemi, intanto resiste e avanza.

E non per il morire del vento, non perché finiscono i problemi, ma per il miracolo umile dei rematori che non mollano i remi, che sostengono ciascuno la speranza del compagno.

Primo prodigio: Dio non agisce al posto nostro, non ci toglie dalle tempeste ma ci sostiene dentro le tempeste: non abbiate paura!

Non salva dalla sofferenza ma nella sofferenza,

non protegge dal dolore ma nel dolore.

L’espressione è di Bonhoeffer: Dio non salva dalla croce, ma nella croce.

Un semplice cambiamento di preposizione e tutto acquista un’altra luce. Dio non porta la soluzione dei nostri problemi, porta se stesso dentro i problemi.

E poi entra in scena Pietro, con la sua tipica irruenza: se sei figlio di Dio, comandami di venire verso di te camminando sulle acque.

Venire verso di te, bellissima richiesta. Camminando sulle acque, richiesta infantile, che vuole un prodigio fine a se stesso, una esibizione come quella chiesta dal diavolo sul pinnacolo del tempio: se sei figlio di Dio buttati giù e verranno gli angeli, uno spettacolo che non ha di mira il bene di nessuno.

Pietro, che ha grande coraggio e grandi paure, come noi, scende dalla barca e comincia a camminare sulle acque.

Ma in quel preciso momento, proprio mentre vede sente tocca il miracolo, comincia a dubitare e ad affondare. Uomo di poca fede perché hai dubitato? Pietro è uomo di poca fede non perché dubita del miracolo, ma proprio perché lo cerca. I miracoli, segni, visioni, apparizioni, non servono alla fede.

È il lamento di Gesù su quelli di Cafarnao: se a Tiro e Sidone avessi fatto un decimo…I miracoli si impongono, stupiscono, ma non convertono.

Lo mostra Pietro stesso: fa passi di miracolo sulle onde e nel vento, eppure proprio nel momento in cui sperimenta la vertigine del prodigio sotto i suoi piedi, in quel preciso momento la sua fede va in crisi: “Signore affondo!”.

Quando Pietro guarda al Signore e alla sua parola: “Vieni!” può camminare sul mare.

Quando invece guarda al vento che è forte, alle difficoltà, alle onde, alle crisi, si blocca nel dubbio. Così accade sempre.

Se noi guardiamo al Signore e alla sua Parola, se abbiamo occhi che puntano in alto, se mettiamo il cuore in progetti che sono buoni, noi avanziamo.

Se guardiamo alle difficoltà, se teniamo gli occhi bassi, fissi sulle macerie, ai nostri complessi, ai fallimenti di ieri, sulle depressioni, iniziamo la discesa nel buio.

Mentre la paura dà ordini che mortificano la vita, i progetti danno ordini al nostro futuro.

Pietro, dentro il miracolo, dubita e ha paura: “Signore affondo”; dentro il suo dubbio, crede: “Signore, salvami!”. Ringrazio Pietro per questo suo intrecciare fede e dubbio; per questo suo oscillare fra miracoli e abissi. Dubbio e fede. Indivisibili. A contendersi in vicenda perenne il cuore umano.

Ma è proprio là che il Signore ci raggiunge, al centro della nostra debole fede. Non attende, non pretende che abbiamo una fede grande.

Ci raggiunge e non punta il dito per accusarci, ma stende la sua mano salda per afferrarci. Verrà: dentro la nostra poca fede, a salvarci da tutti i nostri naufragi se appena tendiamo la mano.

E la piccola barca di canne, il cuore,

avanzerà verso la fine della notte,

dove la paura diventa carezza,

dove il grido diventa abbraccio.

Abbraccio tra l’uomo e il suo Dio.

 

 

 

Signore, oggi è tempo di paure, non di fede.

Siamo tutti sommersi in un mare di dubbi:

Ma tu avvicina ancora un po’ quella mano

che non hai mai cessato di tenderci,

Signore, non ti chiedo miracoli,

non ti chiedo di camminare sulle acque,

ma di attraversare le valli della paura con te,

col tuo bastone che mi dà sicurezza.

Non ti chiedo di camminare sul mare,

ma il calore della tua mano che conforta,

della tua parola che incoraggia.

Tu sei con noi, Signore,

fino alla fine della notte,

fino alla fine del tempo.

Vieni dentro la mia poca fede

a salvarmi da tutti i naufragi.

E la piccola barca di canne che è il nostro cuore

avanzerà verso la fine della notte,

ove il nostro grido di paura diventerà

un abbraccio tra l’uomo e il suo Dio.

Amen.

 

p: Ermes Ronchi