Il Vangelo – Ermes Ronchi

XXX^ Dom. T.O. – Anno C – ottobre 2019

Quando mettiamo «io» al posto di «Dio»

O Dio, tu non fai preferenze di persone
e ci dai la certezza che la preghiera dell’umile penetra le nubi;
guarda anche a noi come al pubblicano pentito,
e fa’ che ci apriamo alla confidenza nella tua misericordia
per essere giustificati nel tuo nome.
(II Colletta)

Vangelo – (Luca 18,9-14)
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

Una parabola “di battaglia”, in cui Gesù ha l’audacia di denunciare che pregare può essere pericoloso, può perfino separarci da Dio, renderci “atei”, adoratori di un idolo. Il fariseo prega, ma come rivolto a se stesso, dice letteralmente il testo; conosce le regole, inizia con le parole giuste «o Dio ti ringrazio», ma poi sbaglia tutto, non benedice Dio per le sue opere, ma si vanta delle proprie: io prego, io digiuno, io pago, io sono un giusto. Per l’anima bella del fariseo, Dio in fondo non fa niente se non un lavoro da burocrate, da notaio: registra, prende nota e approva. Un muto specchio su cui far rimbalzare la propria arroganza spirituale. Io non sono come gli altri, tutti ladri, corrotti, adulteri, e neppure come questo pubblicano, io sono molto meglio. Offende il mondo nel mentre stesso che crede di pregare. Non si può pregare e disprezzare, benedire il Padre e maledire, dire male dei suoi figli, lodare Dio e accusare i fratelli. Quella preghiera ci farebbe tornare a casa con un peccato in più, anzi confermati e legittimati nel nostro cuore e occhio malati.

Invece il pubblicano, grumo di umanità curva in fondo al tempio, fermatosi a distanza, si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». Una piccola parola cambia tutto e rende vera la preghiera del pubblicano: «tu», «Signore, tu abbi pietà». La parabola ci mostra la grammatica della preghiera. Le regole sono semplici e valgono per tutti. Sono le regole della vita. La prima: se metti al centro l’io, nessuna relazione funziona. Non nella coppia, non con i figli o con gli amici, tantomeno con Dio. Il nostro vivere e il nostro pregare avanzano sulla stessa strada profonda: la ricerca mai arresa di qualcuno (un amore, un sogno o un Dio) così importante che il tu viene prima dell’io.

La seconda regola: si prega non per ricevere ma per essere trasformati. Il fariseo non vuole cambiare, non ne ha bisogno, lui è tutto a posto, sono gli altri sbagliati, e forse un po’ anche Dio. Il pubblicano invece non è contento della sua vita, e spera e vorrebbe riuscire a cambiarla, magari domani, magari solo un pochino alla volta. E diventa supplica con tutto se stesso, mettendo in campo corpo cuore mani e voce: batte le mani sul cuore e ne fa uscire parole di supplica verso il Dio del cielo (R. Virgili).

Il pubblicano tornò a casa perdonato, non perché più onesto o più umile del fariseo (Dio non si merita, neppure con l’umiltà) ma perché si apre – come una porta che si socchiude al sole, come una vela che si inarca al vento – a Dio che entra in lui, con la sua misericordia, questa straordinaria debolezza di Dio che è la sua unica onnipotenza.
(Letture: Siracide 35,15-17.20-22; Salmo 33; 2 Timoteo 4,6-8.16-18; Luca 18,9-14)

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