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XXIX domenica

Luca 18,1-8

 

 

Disse una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai. E a noi pare una missione impossibile ‘sempre e mai’. Quante volte mi sono stancato!

Ma capiamo bene: pregare non è dire preghiere; pregare sempre non significa moltiplicare rosari e novene per tutto il giorno e non smettere mai.

Gesù l’ha chiarito quando ha detto: quando pregate non moltiplicate parole. Non fate come i pagani che credono di essere esauditi a forza di parole (cfr. Mt 6,7).

E anche nel vangelo le preghiere brevi sono le più comuni: Signore, abbi pietà; kyrie eleison; se vuoi, puoi guarirmi; ricordati di me; mio Signore e mio Dio… Gesù prega ripetendo talvolta una sola parola: Abbà, Padre. Così era per gli antichi Padri del deserto; così è ancora oggi la formula della «preghiera del cuore». Così suonavano le semplici giaculatorie di tanta fede popolare.

 

Io amo le preghiere brevi. Mi sono sempre sentito inadeguato di fronte alle preghiere che durano tanto. E anche un pochino colpevole. Per la stanchezza e le distrazioni che aumentano in proporzione alla lunghezza. Finché mi sono imbattuto in un padre del deserto, un grande monaco Evagrio il Pontico che dice: «Non compiacerti nel numero dei salmi che hai recitato: esso getta un velo sul tuo cuore. Vale di più una sola parola nell’intimità, che mille stando lontano».

Il numero delle preghiere è come un velo sul cuore. Ma quando una frase, una parola, un’intuizione, un’emozione sorprendono l’anima, fanno trasalire il cuore, allora lì bisogna fermarsi, sostare, agganciarsi a quella intuizione, far cessare le parole, assaporare lo Spirito che si è posato lì dentro, pronunciare anche una sola parola, ma nell’intimità.

Pregare alle volte è solo sentire una voce misteriosa che sussurra all’orecchio: io ti amo, io ti amo, io ti amo. E rispondere.

Perché pregare è come voler bene. Infatti c’è sempre tempo per voler bene: se ami qualcuno, lo ami sempre. Basta anche solo evocare il nome e il volto di una persona cui vuoi bene e da te parte qualcosa che si mette in viaggio verso quel volto. Così è con Dio: pensi a lui, con il cuore, e da te qualcosa si mette in viaggio all’indirizzo dell’eterno.

Pregare sempre allora è spiegato da Sant’Agostino così: “il desiderio prega sempre, anche se la lingua tace. Se tu desideri sempre, tu preghi sempre”.

Pregare è come voler bene. C’è sempre tempo per voler bene, qualsiasi cosa tu stia facendo.

Quando uno ha Dio dentro, non occorre che stia sempre a pensarci. La donna incinta, anche se non pensa in continuazione alla creatura che vive in lei, diventa sempre più madre ad ogni battito del cuore.

Davanti a Dio non conta la quantità, ma la verità. E mille anni sono come un giorno. L’obolo della vedova conta più delle molte offerte dei ricchi (cfr. Mc 12,41-44). Perché dentro c’è la totalità e l’intensità del suo dolore e della sua speranza.

 

Il vangelo ci porta a scuola di preghiera da una vedova, una bella figura di donna, forte e dignitosa, che non si arrende, fragile e indomita al tempo stesso. Ha subito ingiustizia e non abbassa la testa di fronte al sopruso. Lei traduce bene la parola di Gesù: senza stancarsi mai. Che vuol dire, letteralmente: senza arrendersi; certo che ci si stanca, che pregare stanca, che Dio stanca. Ma tu non cedere, non deporre le armi.

C’era un giudice corrotto. E una vedova si recava ogni giorno da lui e gli chiedeva: fammi giustizia contro il mio avversario!

Gesù lungo tutto il vangelo ha una predilezione particolare per le donne sole, perché rappresentano l’intera categoria biblica dei senza difesa, vedove orfani forestieri, i difesi da Dio.

Una donna che non si lascia schiacciare ci rivela che la preghiera è un ‘no’ gridato al ‘così vanno le cose’, è come il primo vagito di una storia nuova che nasce e che cambia.

Perché pregare? È come chiedere: perché respirare? Per vivere. La preghiera è il respiro della fede. Come un canale aperto in cui scorre l’ossigeno dell’infinito, un riattaccare continuamente la terra al cielo. Come per due che si amano, il respiro del loro amore.

Forse tutti ci siamo qualche volta stancati di pregare.

Non ho più dimenticato un dialogo di 25 anni con un monaco trappista dell’abbazia di Orval in Belgio. Gli chiesi questo: «Ma quando ci si stanca di Dio, cosa dobbiamo fare?». Pensavo, temevo che mi avrebbe demolito, dicendomi: quanto sei indietro nella fede! Come si fa a stancarsi di Dio?… Mi guardò con occhi profondi e dolci e mi racconto che san Bernardo diceva si monaci questo: « noi siamo come nel giorno dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme, siamo in quel corteo che accompagna Gesù giù dal monte degli ulivi. C’è chi canta, chi stende i mantelli, chi è in testa al corteo, chi in coda, chi ha rami di palma in mano, chi è più vicino a Gesù. Ma poi, poi c’è uno che fa più fatica di tutti, è l’asino, che porta Gesù: sente tutto il peso di quella strada ripida, di quel Dio su di sè, eppure è proprio lui il più vicino a Cristo. Così per noi» disse il monaco «quando sentiamo fatica e stanchezza, o il peso di Dio, forse siamo come l’asino del corteo, i più vicini a Cristo: stiamo portando il suo peso. L’importante è continuare, perché appena dopo c’è Gerusalemme».

Appena dopo. E Dio non farà prontamente giustizia a quelli che lo invocano? Invece noi ci siamo stancati proprio per la non prontezza di Dio. Le preghiere si alzavano in volo dal cuore come colombe dall’arca del diluvio, ma nessuna tornava indietro a portare una risposta. E mi sono chiesto, e mi hanno chiesto, tante volte: ma Dio esaudisce le nostre preghiere, si o no? La risposta di un grande credente, il martire Bonhoeffer è questa: “Dio esaudisce sempre, ma non le nostre richieste bensì le sue promesse”. E il vangelo ne è pieno: non vi lascerò orfani, sarò con voi, tutti i giorni, fino alla fine del tempo.

Non si prega per cambiare la volontà di Dio, ma il mio cuore. Non si prega per ottenere, ma per essere trasformati. Contemplando il Signore veniamo trasformati in quella stessa immagine (cfr 2 Corinzi 3,18). Contemplare, trasforma. Uno diventa ciò che contempla con gli occhi del cuore. Uno diventa ciò che prega. Uno diventa ciò che ama.

Ottenere Dio da Dio, questo è il primo miracolo della preghiera. E sentire il suo respiro intrecciato per sempre con il mio respiro.

Io amo le preghiere brevi, le formule lampeggianti, lucciole nella notte, un morso di luce sul cuore. Preghiere leggere come fili di seta che lancio oltre il muro; non possenti come una fune su cui arrampicarmi, ma così numerose da creare una trama su cui posa il piede di Dio, che viene sempre a cingere in un abbraccio i suoi figli malati di solitudine.

Il nostro compito non è interrogarci sul ritardo, ma forzare l’aurora della giustizia, come la piccola vedova. Come p. Turoldo, quando scriveva: sulla mia tomba mettete ha cercato soltanto cieli nuovi e terra nuova. Senza stancarsi mai.

 

p. Ermes Ronchi

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