Io sono un detenuto, lo sono da trent’anni.
Scrivo, leggo, lavoro, ascolto e penso, ho gratitudine sincera per chi mi ha aiutato ad essere ciò che sono oggi, sono consapevole delle difficoltà in cui vive il carcere, e ancor di più quelle in cui sopravvive l’uomo detenuto.

IL CARCERE E’ SOCIETA’…NOTANDO E PENSANDO A QUELL’ACCENTO.

Vincenzo Andraous
Carcere di Pavia e tutor Comunità – Casa del Giovane di Pavia
Luglio 2002

PEDAGOGIA DELL’ERRORE

Quel giorno la professoressa di Italiano tentava di spiegarci che il destino non è una mera fatalità, bensì siamo noi a tracciarne il senso.
Aveva ragione da vendere, ma io non volli acquistarne neppure un grammo, tant’è che le lanciai una matita, colpendola alle spalle.

“Chi è stato?”. Il silenzio fu l’ unica risposta. Venne il Preside, minacciò la sospensione per tutti, se non fosse saltato fuori il colpevole, ma il mutismo non consentì alcun dialogo, mentre io mi sentivo fiero della mia bravata, e protetto dal silenzio dei compagni.
Ora so che fu un errore, scambiare quell’accadimento meschino per una forma di solidarietà.
Lentamente ma inesorabilmente piombai nel baratro più oscuro, e uscirne non è stato facile: mi è costato quasi trent’anni di carcere scontato, e tutt’ora è un viaggio di ritorno lento e sottocarico.

Ho ricordato questo episodio adolescenziale, perché nella Comunità “Casa del Giovane” dove seguo e accompagno giovanissimi e minori, mi è capitato di assistere a qualcosa di terribilmente simile: come una storia sovente ripetuta, senza che alcuno riesca a coglierne l’insegnamento.
Infatti, un minore ne ha combinata una delle sue, e i coetanei continuano ad ammiccare, tacere, e, peggio, acconsentire. Scoperto il guaio e punito giustamente il colpevole, gli amichetti “solidali” si rigano il volto di lacrime. Anch’io sento il morso del dispiacere, ma sale alto quell’episodio che mi ha visto protagonista tanti anni addietro.

Così schianto con le parole gli atteggiamenti ipocriti, anzi assai più pericolosi.
E’ sottile, quasi invisibile, il confine che separa il sentimento della solidarietà dall’omertà, ma quest’ultima non ha parentela con ciò che nasce spontaneo verso l’altro, ciò che spinge e affianca chi è affaticato, perché la solidarietà è un sentimento che nasce con forza, con amore, con verità, per poi ritirarsi senza clamori. Invece l’omertà è un mezzo per rendere sicura la prepotenza e la prevaricazione. L’omertà è viltà, per coprire l’ignoranza.

Soprattutto, a differenza della solidarietà, è una subcultura che consente di far pagare ad altri il prezzo della propria inutilità.
Altri giovani hanno condiviso la trasgressione con quel minore, ma rimangono in silenzio, defilati, nella convinzione che l’importante è “farla franca”.
E’ questa loro non-consapevolezza a far riflettere.
Ecco che allora diventa prioritario, urgente, intervenire, perché non rimangano seduti nell’ultima fila. Proprio in questa cecità ottusa occorre imprimere il visto di entrata al cuore, e comprendere che è certamente una sola la via da seguire, cioè quella del sentire il richiamo della solidarietà vera, quel sentimento che ci induce a farci avanti, a non nasconderci, per poter essere responsabili del bene di ciascuno e di tutti, ammettendo gli errori e cercando di comprenderne il peso.
Non so se oggi, come ieri, questi fraintendimenti dolorosi che assalgono i giovani sono il risultato di una ingiustizia sociale, che moltiplica i casi di emarginazione, di protesta e di disagio.
Però sono certo che non saranno le parole, i libri, a salvare chicchessia dal proprio destino.

Educare significa non tirarsi indietro, ma avanzare con il bagaglio delle proprie esperienze, come somma degli errori, per porsi a diga di ogni facile conclusione: perché solo in questa direzione può esistere una politica sociale degna di questo nome, che possa partorire giustizia.
Per addivenire a questa nuova cultura, occorre, ineludibile, una condizione: il diritto alla vita e alla tutela di ogni minore passa attraverso un’azione collettiva, dove nessuno può chiamarsi fuori.
Un’azione che è anche fatica, ma va affrontata giorno dopo giorno.

GUERRIERI IN ERBA

Alcuni studenti mi hanno chiesto perché in questi ultimi tempi, si verificano fatti delinquenziali compiuti da adolescenti e giovani adulti, non piu’ e non solo di bassa estrazione sociale, ma provenienti da famiglie borghesi e benestanti.
Prima di rispondere, ho pensato ad un’altra dimensione, differente nello spazio perche’ limitato e nel tempo perche’ in eccesso.

Ho pensato al carcere.
A ben guardare persino qui dentro ogni cosa non e’ piu’ al suo posto, “ le gabbie di partenza “ non sono piu’ le stesse, e se osservo con attenzione, mi accorgo non solo che gli extracomunitari sono dappertutto, che i tossicodipendenti abbondano, che i giovani non sono piu’ quelli di una volta.
Quelli che per una precisa scelta di vita decidevano di imboccare il vicolo cieco, consapevoli del rischio di andare a sbattere la testa.

Mi accorgo anche che ci sono i malavitosi con tanto di patente a punti, e con stupore mi rendo conto che sono una minoranza in via di estinzione.
Allora agli occhi balzano due considerazioni: che il problema sicurezza e’ legato al crimine di piccolo cabotaggio e che i ragazzi che sopravvivono nelle patrie galere somigliano piu’ ad un groviglio di vite disastrate per dipendenze di ogni genere, non ultima quella di esorcizzare la vita.
Ai miei tempi si scivolava dalla trasgressione, alla devianza, alla criminalita’, per uno scopo semplice, per denaro: il rischio ed il rapporto causa-effetto erano inquadrati in un conflitto permanente tra base e vertice, quindi tra malavitosi e istituzioni.
La fotografia che appare nitida oggi, mostra un agglomerato umano detenuto, che aiuta a rispondere alla domanda postami all’inizio.

A mio modo di vedere c’è stato in questi anni una specie di mutamento antropologico, che stravolge ogni parvenza di linearità, addirittura contorce il piu’ corretto ed onesto dei valori, la famiglia.
Dapprima c’è l’illusione da parte del nucleo famigliare, di essere per-bene, perché si è raggiunto un benessere economico, con la convinzione che ciò non può comportare alcun tipo di rinculo.
Eppure è in questo modo di vivere “ sempre in piedi “ che nasce l’iconografia del nuovo disagio, come ha ben detto qualcuno “il disagio dell’agio”.

E’ fin troppo facile, parlare di benessere materiale che disconosce o peggio ripudia il benessere spirituale, appare persino retorico accennarlo, quando la realtà sta in un’educazione che riconosce unicamente i primi della classe, coloro che non si fanno fregare in prossimità della metà.
Qual’è oggi la famiglia che ci rappresenta tutti? Non certo quella di ieri, la nostalgia del passato non consente un paragone credibile, forse la verità è che siamo cambiati noi, a tal punto che non esiste più un modello di famiglia.
Esiste invece un imperativo che contempla e avvolge non solo la famiglia, ma anche la vita, e con ciò intendo il linguaggio contemporaneo, che sovverte i lignaggi, le religioni e le politiche, quel linguaggio che mette a soqquadro e drammaticamente inverte il concetto di “ essere con l’avere “.
Rendendo vani e fallimentari negli adolescenti processi e percorsi di costruzione della propria identità.
Tanti anni fa un vecchio saggio mi disse: “una fortezza resiste se la guarnigione è bene addestrata”.

Quale famiglia resiste ai conflitti fisiologici ad ogni salto generazionale, se gli stili educativi corrono sull’assenza di tempo, sull’atomizzazione dell’ascolto, sulla comodità di concedere attenuanti, in rifugi costruiti a misura che deresponsabilizzano.
E’ molto più facile elargire un sì, che un no, perché quest’ultimo non comporta spiegazioni ed allenamento alla fatica.
Per il ragazzo che è in attesa al palo, il sentiero si restringe, diviene una scorciatoia, l’ammenda è facile da pagare per rincorrere da una parte un’autonomia e capacità di scelta prive del proprio carico di responsabilità, perché indotte da un’infantilizzazione che rasenta la follia.
Dall’altra è ovvio che avanza l’assenza di freni e di capacità a mediare ( nozioni queste che in un recente passato erano peculiari della famiglia, della scuola, etc. etc.).
Va da sé, che così facendo è ben più stimolante non subordinare mai le passioni alle regole, a tal punto che quel desiderio di autonomia, improvvisamente irrompe con il suo carico di sconosciute responsabilità, e contenerne la spinta senza conoscerne il senso, equivale a trovarsi disarmati e arresi gia in partenza.

Nella comunità “Casa del Giovane” di don Franco Tassone a Pavia, dove io sono tutor, ho compreso quanto sia difficile conoscere ed interpretare il mondo di un minore, mettersi nei suoi panni.
E’ proprio in questa mia nuova avventura, che ho scoperto un’altra differenza tra l’età adolescenziale odierna e quella che fu mia, se mai ne ho avuta una.
Ricordo che non sopportavo i grandi, le persone adulte, quelle che avevano tutte le loro belle certezze, i loro domani sicuri.
La mia ribellione, il mio urto e fastidio era soprattutto per loro.
I ragazzi che osservo, seguo, ascolto oggi, non hanno rancori, ire, ferite da addossare ai grandi, è come se quell’eredità fosse scomparsa, non urge più il bisogno di “affratellarsi “ per essere antagonisti degli adulti, ora è necessario formare il gruppo per competere e vincere con i propri pari.
Per essere “ tosti “ occorre tecnologia avanzata, abiti griffati e perfezione dell’immagine.

Nasce il gruppo dei pari che combatte gli altri pari, e le armi usate nelle contese, sono quelle che i grandi lasciano senza protezione all’intorno. Sono le armi delle parole, quelle parole che teatralmente condannano la violenza, per poi esortare i propri figli a non credere a nessuno, neppure a tante storie anonime, drammatiche, devastanti, scritte e cancellate nella frazione di uno sparo.

EREDITA’ SCARLATTE

Sono in questa comunità “Casa del Giovane“ da tempo ormai, e mi accorgo che c’è sempre qualcosa da imparare, da rielaborare e tenere ben a mente. Anche quando i percorsi, i metodi, le dinamiche sono tutte al loro posto, c’è un lampo che attraversa il nostro passo, e ci obbliga a fermarci per riflettere.
Molti sono i minori accolti in queste strutture, e molti sono coloro che accompagnano i loro passi, con attenzione e capacità intuitive, che a volte “servono“ più delle competenze acquisite con lo studio delle tecniche educative.
Certo è difficile comprendere il disagio che li avvolge, ancor più esplicare metodi educativi risolutivi, perché ogni persona è un mondo a sé, allora intervenire diventa “scienza della mente e del cuore”., e non sempre è facile riuscire dove la vita non è stata ancora vissuta, ma è stata incredibilmente lacerata fin dal suo sorgere.

Le storie che incontro sono pezzi di vita che sbarrano la strada, bussano alla porta della ragione per tentare di sfiorare finalmente un senso, quel senso che i giovanissimi prendono a calci, per reazione all’indifferenza o all’incapacità dell’altro di farsi carico delle sofferenze che sono state loro imposte, in famiglia, nella scuola, da un mercato che disconosce il povero e annichilisce il ricco.
E’ un’umanità adolescenziale che cresce piagata per non avere avuto possibilità di scelta, se non quella di fuggire lontano da un reale sotto vuoto spinto.

La nostra è una società che etichetta, che ingabbia, che modella a proprio uso e consumo, per poi gettare via l’involucro usato o avariato. E’ una società che allunga il passo, che ha memoria corta, una società che recita, sì, il Padre Nostro, ma lo fa meccanicamente per non sentire l’importanza di quelle parole, né gli impegni assunti con quella preghiera.
Baby gang-branco-baby assassini- è roba che riguarda gli altri, perché “tanto ai miei figli non accadrà mai”.
Qualcuno ha detto che, finchè i bambini non saranno intesi come figli di tutti, essi saranno destinati a scontrarsi, e soccombere, con gli interrogativi di questa esistenza.
Forse non è neppure il caso di polemizzare sulle varianti che generano disagio, per intenderci, sulla povertà che alimenta il conflitto, sui distacchi perpetrati in famiglia, sull’uso e abuso dell’agio.

Lutrec è un ragazzo che non somiglia per niente ad un uomo, è un giovanissimo con gli occhi di cerbiatto. Non è neppure un bambino, è un adolescente che non cede metri al tempo, mentre rimane fermo ad aspettare.
Ricordo quando l’ho visto arrivare in comunità: un uragano, un tir senza comandi, una valanga che tutto travolge e sconvolge.
Impotenti di fronte a tanto furore.
A ben guardare, Lutrec è davvero fin troppo giovane per essere così reattivo e diretto nello scontro fisico, quanto evasivo nel pagare pedaggio al gioco delle verità.
Nei primi tempi non ha fatto altro che provocare, offendere, cercare guai con i coetanei, con gli adulti, persino con Dio.
In che modo seguire e accompagnare un piccolo Attila, un distruttore di pazienze e speranze? Come evitare di reagire allo stesso modo, o peggio, guardare da un’altra parte?

Ma in Lutrec non c’è un disturbo della personalità, né una patologia esistenziale, c’è il rischio della sconfitta, per non esser stati capaci di intervenire con scienza e coscienza.
Dietro la maschera del duro c’è un’intelligenza viva, lucida e creativa.
Dietro quella maschera indossata a difesa ed offesa, c’è il peso delle tragedie vissute, del dolore incamerato e mai elaborato, delle sofferenze accatastate e mai del tutto superate.
Lutrec non conosce ancora la propria storia, la propria dimensione, il proprio spazio e tempo, rifiuta i ruoli all’intorno, porta addosso un’eredità mai voluta né condivisa.
Non ha deficit cognitivi, né turbe emotive strutturali, alla sua età, è stravagante per monopolizzare l’attenzione, ricorda ma non accetta le assenze eterne, né i rifiuti delle presenza rimaste.
Lutrec è un respiro ansioso, che sente la minaccia del rifiuto e dell’abbandono.

Osservandolo, ho pensato quanto siamo tutti dottorandi di filosofie comportamentali astratte, a tal punto da ingabbiarlo in una serie di mancanze, che hanno prodotto l’otturazione delle intercapedini ove stanno in embrione i mondi futuri.
Riflettendo con parsimonia di giustificazioni, ma con maggiore onestà intellettuale, si potrebbe sostenere che le negatività messe in atto da Lutrec non sono altro che la esplicitazione di una superficialità verso la propria persona e i propri sentimenti: frutto di un modello genitoriale per lo meno indeguato.
Ecco allora la sua paura, la sua sfiducia in se stesso e negli altri, la sua convinzione di non valere qualcosa, né di poter fare cose significative per il proprio futuro.
E questa percezione genera diffidenza, disimpegno, alimenta solo l’attenzione al “tutto e subito, qui e ora “.

Mi rendo conto che esprimo sensazioni dettate dalla mia vista, dal mio udito, mancanti di una competenza scientifica, ma penso che si diventa responsabili se e quando si esercitano responsabilità reali, seppure appropriate all’età.
Non certamente attraverso una conduzione educativa assistenziale, fatta di tante cose date gratis, e di un po’ di regole ( sì, necessarie, ma che possono generare dipendenza, e quindi assuefazione al “ tanto mi dà tanto”, perché in questa ottica verrebbe a mancare la vera responsabilizzazione, quella basata sulla fiducia, sulla tecnica dialettica che non consente agli interlocutori di barare.
Don Enzo Boschetti, fondatore della Casa del Giovane, ci ha insegnato che “si educa e rieduca solo con l’amore e la fiducia”: questo è il solo modo per andare incontro alle solitudini che devastano il mondo giovanile, alle incapacità di trasformare relazioni interpersonali conflittuali, in relazioni vere, che servano ad elevare anima e cervello, quindi a costruire nuove convivenze e comunità.

Febbraio 2002

SULLA GIUSTIZIA MINORILE

In questo paese ubriaco di schizofrenie dialettiche, di scosse telluriche a intermittenza, che provocano cedimenti istituzionali e piegamenti umani, mi viene da pensare ( meno male che il pensiero è strumento di libertà riconosciuto ontologicamente ) a come punire sia più facile che prevenire e agire con composta fermezza.
Penso alle riforme sulla Giustizia minorile ( tutte in linea di partenza, senza box a proteggerne eventuali riparazioni ), alla disinformazione dilagante, a come sia facile dire, per non dire nulla.

Ad esempio che un minore è imputabile un giorno dopo il compimento del quattordicesimo anno di età. Eppure, nella comunità in cui svolgo la mia attività di tutor, mi sono affidati giovanissimi di dodici-tredici anni, condotti in comunità ( quindi non per loro scelta ) a seguito di interventi mirati e conclusivi da parte dei Centri Servizi Sociali per minori, i quali si pongono a mezzo e tutela del minore, quando è provata la disgregazione del nucleo familiare, quando persiste l’evasione scolastica, nonché il rischio ricorrente di comportamenti che sono di per sé gia reati contestabili.

Penso allora ad un dodicenne che commette un reato, penso a quanto poco conosciamo di questo ragazzo, e quanto quella sua irresponsabilità sia somma e detrazione di una responsabilità che appartiene a pieno titolo ad un pubblico ben più adulto.
Quale carcere e quale pena sono giuste per un adolescente che non sa riconoscere ancora sentimenti complessi e ruoli ben definiti all’intorno? La domanda spingeeppure già, esiste, dapprima, un’esclusione, e a seguire un’inclusione in agenzie di controllo e trattamentoche per fortuna non sono solo sotto formato carcere.

Davanti ad accadimenti tragici, che scompongono le coscienze, è chiaro che sale alta una esigenza doverosa di Giustizia, quanto meno per un’attenzione sensibile nei riguardi delle vittime. A tal proposito, e in linea con una comunicazione mediatica a dir poco strumentale, non è lecito sapere, che nel campo delle scelte di politica criminale per minori, è in sperimentazione un percorso innovativo di non poco spessore nel diritto di una procedura penale che custodisca umanità e speranza in ogni azione di contrasto.
Esiste appunto, un tavolo di mediazione, con un giudizio sospeso, affinché “colpitore e colpito “ possano avvicinarsi, perché al male fatto non segua altro male fine a se stesso, e chi cerca risposte e Giustizia al proprio dolore, possa guardare negli occhi l’altro.

Al di là del tavolo di mediazione, c’è il minore, e la possibilità che subentri la consapevolezza del male perpetrato, affinché il senso di colpa si trasformi in un sentimento diverso, di ben altra dimensione interiore, ciò per evitare che posto nella stessa condizione abbia a ripetersi l’identico comportamento deviante.
Penso alla difficoltà di accettare un consenso alle regole, perché costa fatica intellettualmente e fisicamente, e credo sia talmente inusitato il peso di questo tentativo, che forse è assai più facile lasciarsi andare all’emotività, alla richiesta di inasprimento delle pene, al comodo rifugio: “ tanto non accadrà mai ai miei figli”.
Penso ai tanti giovani nelle comunità, che cadono e si rialzano, e in una sopraggiunta responsabilizzazione trovano capacità di vista prospettica.

Di fronte alle delusioni, ai fallimenti, non solo al disagio esistenziale di un minore, ma alle eredità conflittuali lasciate sulle loro spalle, persino davanti al disagio psichico, alle patologie, penso che occorra perdere una battaglia, per vincere la guerra, e ritrovare un senso a dare, per non assuefarsi alle facili conclusioni o rese, che alimentano paure e insicurezze, e soprattutto interrompono quel collante che tiene insieme una società.
Una società che sa recuperare, che produce “ il bene “ nel nome della centralità dell’uomo, è una società che riconosce il valore della libertà, e libertà sottende capacità di sostenere una scelta.
Anche la più difficile.

Maggio 2002

E’ UN INTERESSE COLLETTIVO

Quando si parla di carcere, si rischia di incorrere in esternazioni ideologiche, che sono il mezzo per infilare la scorciatoia più vicina, per non percorrere la strada faticosa a nome Giustizia e Umanità.
Per partorire davvero riforme, invece occorrono costruzioni mentali forse difficili, non basta esprimere giudizi.
Tutti sappiamo che è più facile non guardare a quel che succede nei meandri di un penitenziario.
Altrettanto sappiamo che è ancora meglio non interessarsi a quel che non succede in una prigione.
In fin dei conti è più consono non accollarsi troppi mal di testa per “persone“ che hanno sbagliato, e pagano giustamente pegno.

Tranne poi scandalizzarsi e farne un dramma di coscienza, quando molte di queste persone, una volta ritornate in libertà, al termine della loro pena, ricommettono gli identici reati , creando allarme sociale e insicurezza.
Allora si auspica, inasprimento delle pene, carcere duro.. il capo reclino negli strati più profondi, con l’unico risultato di nascondere la verità, quella che fa male e ci indica come corresponsabili di un’assenza che perpetua vittime e carnefici.
L’impressione che si ricava dal dibattito attuale sul carcere, è di una somma di parole che non favorisce speranza.
Come se il carcere, per un imperativo categorico non scritto ma imponente, dovesse rimanere uno spazio isolato, disgregato e disgregante, annichilente a tal punto che nessuno deve interessarsene con impegno e investimento appropriato.
Come se obbligatoriamente chi entra nel perimetro di una prigione, debba uscirne svuotato di se stesso, e senza prospettiva alcuna.

Come se trasformare il presente carcerario, ricercando un dialogo possibile, che edifica il più piccolo degli approdi sicuri, a fronte di uno sbandamento che ha prodotto conflittualità assidua, fosse una utopia lacerante.
Eppure, se vogliamo che l’insicurezza e la criminalità diminuiscano, dobbiamo riflettere tutti insieme, perché l’esperienza ci dice e conferma che sulla personalità di ogni detenuto, di ogni uomo ristretto, di ogni minore o adulto in prigione, gli effetti sfavorevoli delle sanzioni privative della libertà personale, superano di gran lunga qualsiasi portata positiva per la sua risocializzazione.
Per superare lo scompenso, la diastasi tra punizione e recupero, occorre ripristinare un clima di collaborazione e di partecipazione attiva.

Forse è il caso di prendere in considerazione il fatto che il reato, il delitto, è anche una malattia sociale, e come tale, necessita più di un risanamento che di punizione.
Se rapportiamo questo ragionamento alla funzione del carcere, erroneamente ridotto a fungere da mero luogo di contenimento, e alla luce degli effetti prodotti: recidiva, desocializzazione, deresponsabilizzazione, dobbiamo per forza fare affidamento sull’idea di un carcere che serva davvero a qualcosa, quanto meno a migliorare le persone costrette a trascorrervi parte della loro vita.

Come uomo e come detenuto, negli obiettivi raggiunti, ho riconoscenza per chi mi ha aiutato a rinascere, e senza alcuna polemica, mi viene da pensare che una società dimentica il diritto stesso, quando lascia il detenuto SOLO a riconoscere le proprie colpe, e tradisce quel diritto quando lo lascia SOLO nel suo impegno a superarle e rinnovarsi.
Eppure è proprio questo rinnovamento, questo impegno a superare il passato, questa assunzione di responsabilità soggettiva, che impone al detenuto, ma anche alla collettività un nuovo modo di “vivere il carcere”.

In questa terra di nessuno, quale è il carcere, c’è davvero bisogno di un incoraggiamento pedagogico, verso condotte socialmente condivisibili, ma forse c’è soprattutto urgenza che vengano attenuati alcuni meccanismi dissocianti di una peculiare condizione carceraria, i quali ostacolano la prospettiva di un valido avvenire e di una nuova esistenza sociale.
Sono solo parole? Oppure quanto fin qui detto conserva per intero il peso e la comprensione di un vero e proprio interesse collettivo?

Più volte è stato sostenuto che ogni intuizione educativa, responsabilizzante, fagocitante un cambio di mentalità all’interno di una prigione, è sistematicamente resa monca, dal sovraffollamento, dalla carenza di personale e di fondi.
Più volte alle parole si sono sommate altre parole, ma al fondo mai nulla è rimasto, infatti a queste serie difficoltà, vanno aggiunte diverse altre voci, tra cui il taglio del 13% dello stanziamento concesso agli Istituti Penitenziari per far fronte alle spese sanitarie.

Addirittura il taglio riguardante le retribuzioni per i lavori domestici svolti in carcere è del 45%.
Mi ritornano in mente le parole di un Nietzsche trapassato, che forse consapevolmente si confrontava con il proprio cavallo, e affermava: Non mi piace la vostra Giustizia fredda!
Dite, dove si trova la Giustizia che è amore ed ha occhi per vedere?
Inventatemi dunque l’amore che porta su di se non solo tutte le pene, ma anche tutte le colpe.

AL VICOLO CIECO

Qualche tempo addietro scrissi alcune riflessioni sul carcere, sostenendo che esso è sempre più costretto a vivere del suo, è sempre più “obbligato” a mancare alle auspicate attese della collettività, nell’impossibilità quindi di partorire giustizia e speranza.
Scrissi dei tanti suicidi e dei troppi silenzi.
Ricordo che fui accusato di falsare i dati, di stravolgere la realtà, di mistificare la verità.

Fui indicato come uno scrittore che non sapeva dare conto della propria scrittura, cioè del valore delle parole.
Con sorpresa, alcuni giorni dopo, un grande giornale pubblicò un servizio che confermava le mie tesi, i suicidi in carcere sono effettivamente aumentati drammaticamente.
Soprattutto, ribadisco io, si è deteriorata quella solidarietà e partecipazione costruttiva tra il dentro e il fuori.
Quel collante-riabilitante a fatica edificato negli ultimi anni.
Solidarietà che non è un sentimento pietistico né parente lontana di un’assistenzialismo passivo, bensì è un preciso interesse collettivo, affinché alla giusta condanna del colpevole si affianchi quella prevenzione-accompagnamento che consente di combattere la recidiva dilagante.

Nel silenzio e nell’indifferenza colpevole, spesso mi sono chiesto qual’è il volto nascosto dietro le righe di una notizia.
Qual’è il volto e la storia dell’ultimo uomo scivolato in “SCACCO MATTO” in un carcere.
Quanto quest’ennesimo suicidio risarcisce in termini di umanità, al di là della mera notizia?
Per quanto concerne il carcere penso che non tutto ciò che accade nell’ambiente penitenziario è arbitrario, illegale, ingiusto, forse è solo il risultato del nulla prodotto, appunto, per mancanza di un preciso interesse collettivo o meglio della sua comprensione sensibile.
Perciò a nulla vale il nuovo Ordinamento Penitenziario, il rafforzamento degli Agenti di Polizia Penitenziaria, e di contro la negazione di ogni pietà attraverso la concessione di un indulto o di una amnistia.

Se non interverrà un vero ripensamento-intervento culturale, c’è il rischio di precipitare all’indietro: in una proiezione dell’ombra che non accetta né consente spazi di ravvedimento.
Non è il caso di avvitarsi nel pessimismo, di arrendersi non se ne parla, perché come ha detto Don Franco Tassone Responsabile della Comunità Casa del Giovane di Pavia: “occorre vincere l’ultima battaglia”.
Infatti sono convinto che anche fra le mura di un carcere ci sono uomini consapevoli dell’esistenza di leggi morali, oltre che scritte.
Ci sono uomini che possono riconoscere le leggi dell’armonia sociale, quelle leggi che ad un certo punto si è pensato di poter dimenticare.
Però penso anche a quell’uomo, l’ultimo della serie che s’è impiccato.

A quel volto, a quel cappio al collo, e intravedo l’importanza di demolire i ghetti mentali, di per sè espressione di quello spirito umano spesso incatenato.
Penso allora a questa vita, che è tutta da vivere sempre e comunque, proprio perché è un ‘avventura incerta, e incerta significa che si patisce, si soffre, si cade, e si arriva alla coscienza della poca conoscenza, dei tanti motivi che sfuggono.
Non conosco il volto strozzato in quel carcere, ma comprendo la difficoltà dell’accettazione del dolore, il che in una parola sottenderebbe assenza di saggezza.
So bene quant’è difficile agguantarne l’orma, e quanto a volte ciò sembri lontano, sebbene così straordinariamente vicino, al punto da non vederne neppure l’ombra.
In un carcere è difficile perforare quella superficialità che è corazza a difesa, il “muro di niente” contro cui cozziamo e moriamo.

E’ davvero difficile raggiungere quella falda profonda a nome interiorità, navigando tra anse e anfratti, scogli e derive per arrivare a quell’essenza che può dirci di cosa siamo capaci, e addirittura svelarci il significato da dare alla vita.
Qualcuno ben più illuminato di me ha detto che, forse, il significato della vita, propriamente, non va cercato: dobbiamo solo aiutarlo a rivelarsi e quindi accoglierlo.
Fuggire da noi stessi, dalla realtà stretta di una cella, annullando il significato della propria esistenza, non giustifica la colpa, né le ragioni che ci inducono a farla finita.
Tanto meno indurrà la società a chiedersi se questo ultimo gesto è lecito, e se è morale.

Ancor meno spingerà a domandarsi se per caso Dio non sia morto proprio dentro la cella di un carcere, ipocritamente descritto come un luogo di speranza, mentre permane un luogo di morte.
Forse sarebbe il caso di ripensare davvero alla possibilità di un carcere a misura di uomo, anche dell’ultimo degli uomini.
Di come il detenuto, oltre alla propria condanna, sconti una ulteriore sanzione, quella di morire a tempo determinato.
Perché in carcere, oltre alle ben note etichette, stigmatizzazioni e umiliazioni, va di moda la flessibilità, non quella del lavoro né della pena: umana, dignitosa, condivisa.
Si tratta di flessibilità nel risolvere i problemi endemici che soffocano l’ Amministrazione Penitenziaria, la quale pare muoversi come la nostra evoluta società, che cresce, si educa, si realizza pari passo con l’imbarbarimento dei sentimenti e dei valori, scambiati per medaglie e successi da conseguire a tutti i costi.

Io sono un detenuto, lo sono da trent’anni.
Scrivo, leggo, lavoro, ascolto e penso, ho gratitudine sincera per chi mi ha aiutato ad essere ciò che sono oggi, sono consapevole delle difficoltà in cui vive il carcere, e ancor di più quelle in cui sopravvive l’uomo detenuto.
Sono conscio che le utopie, la pietistica, fanno solo male a entrambi.

E’ urgente smetterla con le solite frasi fatte, luoghi comuni, e fredde didascalie.
In carcere non si muore solamente per le strutture vecchie e malandate, né per l’assenza cronica di Operatori.
In galera ci si perde per sempre, perché è un luogo separato davvero, da una società che corre all’impazzata al supermercato delle suggestioni, degli ideali venduti a buon prezzo, della fede che non è amore che libera, ma fatica di pochi momenti.
In carcere è morto un altro uomo? I mass-media hanno sparato a zero sul sistema, hanno detto che si è suicidato, per l’invivibilità della prigione, per il peso del proprio reato, per la solitudine imposta..

Ma ecco che le parole assumono la cantilena di un nuovo e altrettanto inaccettabile epitaffio, perché anche negli Istituti di più recente costruzione, dove ci sono pochi detenuti, più operatori, e spazi di vivibilità umana in abbondanza, un altro detenuto si è tolto la vita.
Non c’è bisogno di richiamare per forza una fratellanza allargata, di ripetere “mio Dio”, penso piuttosto che occorre ritornare a una coerenza che non è spendibile con le sole parole.
Una coerenza che riporta al centro l’essere umano, con l’attenzione vera per chi subisce il dolore dell’offesa tragica, e con l’attenzione sensibile che non è accudente, né giustificante, ma un preciso interesse collettivo, affinché l’uomo possa migliorare e trasformarsi.

Bisogna bandire le ciance, e chiamare per nome le mancanze, le assenze, gli incitamenti che inducono a non pensare a chi cade, ma spronano a seguire chi ben cammina. poco importa se calpestando chi arranca.
Eppure non tutto viene per nuocere, infatti questa epidemia di suicidi e di numeri a scalare forse risolveranno il problema asfissiante del sovraffollamento, e, perché no, anche quello della spesa pubblica: e per mantenerne uno in meno, e per non costruire altri penitenziari. pardon, “molok” nelle nebbie transilvane.