I miei giorni con Davide nell’Agosto del 1988 a Bressanone

Nel suo libro “ Il grande male” che mi regalò P. David Maria Turoldo scrisse questa affettuosa dedica: “A te, Sandro mio angelo custode per le strade di Bressanone nei giorni bruttissimi di un altro male!”
Naturalmente mi ha fatto molto piacere ma mi sono chiesto e mi chiedo che senso ha avuto, che cosa abbia significato quell’incontro che ha portato poi alla frequentazione assidua con lui ( fece anche la convalescenza nel 1988, dopo l’intervento chirurgico a casa mia al mare a Moneglia in Liguria ) praticamente sino alla morte.
Ricordo che nelle lunghe, interminabili nottate all’Ospedale di Padova, dove io gli ero vicino, molte volte, guardandomi fisso mi chiedeva : “ ma cosa hai fatto di così male nella tua vita per meritarti questo?”. Io gli rispondevo che sì la mia vita non era stata “adamantina”, che però non ero stato artefice di grandi malefatte , e rimbalzavo a lui, provocandogli una sonora risata, la domanda “ piuttosto tu, Davide cosa hai fatto di male per meritarti questo? ”

Conoscevo P. David da molti anni. Spesso ero salito a Sotto il Monte, all’ Abazia di Fontanella per incontrare lui che ritenevo voce profetica. Mi fermavo per l’Eucarestia , per le sue celebrazioni tanto curate nella liturgia, nel canto, così partecipate dai fedelissimi abitanti del borgo e da tantissimi che venivano dai luoghi limitrofi ma anche da lontano. Apprezzavo le sue appassionate Omelie. Trovavo spiritualmente e culturalmente “ ecologica” l’aria che si respirava in quella Comunità di S. Egidio dei Servi di S. Maria appunto e dei tanti laici loro amici, dove sono nate iniziative, riflessioni, proposte ed aperture di quei “cercatori dell’assoluto”. Quel luogo era stato, in passato, caro a Papa Giovanni che vi andava ogni anno a piedi (allora non c’era neppure la strada) e diceva : “ vado volentieri lassù perché nel silenzio di Sant’ Egidio sento meglio il Signore”.
Lo stesso P. David nel trimestrale “Emmaus” informativo dell’attività del Priorato inviato nel Dicembre del 1984 con titolo “ Nella gioia di ricordare” nel ventesimo anno di presenza con preghiera e lavoro della Comunità lo definiva “ un ventennio di ricerca di Dio e del Cristo; di fatiche e di lotte; soprattutto lotte per una maggiore verità di noi e della Chiesa e del mondo; lotte per la pace, la più paradossale delle lotte, difficile e sconvolgente fino ad essere rivoluzionaria anche per i cristiani.
Propositi, fatiche, speranze che sono stati un viatico in mezzo alle asperità di questi anni per molti giovani, per moltissimi , i quali desideravano crescere, e ” liberarsi ” – sempre nella coerenza della fede, o almeno nella sincerità della ricerca -; e cioè, nel realizzare la propria umanità col desiderio di darsi un senso. Senza, ovviamente, alcuna presunzione d’essere nient’altro che non fosse in linea con il Concilio e nella fedeltà alla Chiesa; solo confidando di diventare un po’ più credibili e ” contemporanei ” alla storia che viviamo: compagni di viaggio a tutti i fratelli, specialmente con i poveri in lotta per la loro dignità e liberazione. Aiutandoci umilmente a sperare: virtù diventata sempre più difficile, specialmente in questi ultimi anni e giorni: anni e giorni di prova della fede, come raramente si è dato dalla guerra in poi.

Vent’ anni non sono pochi, non solo nella vita di un uomo, ma pure in quella di una comunità. E che anni! Dalla morte di Papa Giovanni alla morte di un Concilio nel quale tutto il mondo aveva riposto le più vive, le più attese, le più amate speranze: speranze di una chiesa rinnovata e credibile; speranza di tutta una gioventù che aveva creduto realizzabili i migliori valori della vita, speranza nella liberazione dei popoli e nella pace.
La comunità è sempre stata una piccola comunità di frati ” Servi di Santa Maria ” (ma non chiusa, bensì aperta a tutti); una comunità arricchita dall’avvicendarsi di fratelli, dei quali era ed è un godimento la compagnia, uno sprone la loro partecipata ansia di creare e di testimoniare. Comunità diramata poi in tanti piccoli gruppi di giovani impegnati nell’ascolto della Parola, nella ” Lectio Divina “; in fraternità sparse nel mondo, con cui tessere i fili almeno della preghiera: focolai di contagio, piccoli roveti da cui Iddio continui a parlare”.
E poi gli amici, voi innumerevoli amici, che ci avete aiutati e sopportati ed incoraggiati. Amici da noi mai dimenticati , specialmente la domenica, nelle nostre Liturgie. Gli amici: nostra più vera chiesa, nostra fraternità grande, senza tempo e senza confini; chiesa della diaspora, davvero pellegrina; chiesa sempre in cammino”.

Io, dicevo, mi sentivo amico, ed ero perciò affascinato ed attratto da tutto questo.
Partecipavo anche alla “Lectio Divina” dove a volte David sollecitava con insistenza anche miei interventi: era interessato all’aspetto storico ed archeologico che conoscevo per avere tra l’altro partecipato a campagne di ricerca e scavo in Medio Oriente.
Ma a pranzo, a cena, alla notte pretendeva mi fermassi, non sentiva ragioni, mi diceva che “con quella nebbia,con quel traffico,.a quell’ora non era pensabile la partenza., non aveva senso viaggiare di notte”. Salvo poi costringere amici a fare Kilometri per andare in qualche trattoria di suo ( e solo suo..) gradimento nel Comasco, Lecchese, Bergamasco, e a volte anche più lontano.
Per questo mi viene in mente la sua poesia dal titolo“ E domani”.

“ Ve ne siete andati, amici.
Ora nuovamente solo
conto i vostri passi
( prima insieme a scendere
le scale, ad accomiatarci
sul sagrato, più tardi
possibile)e poi solo
a sentire i vostri motori
in corsa verso la pianura.

E tornerete domani e dopodomani
a rapirmi altre gocce di gioia
con fatica aggrumata
nella mia arnia d’inverno

Tale il mio sacerdozio;
pur felice
che torniate, amici.
Ciò non segna importanza alcuna
purché torniate
e domani e dopodomani,
o amici”.

in cui emerge prepotente il viscerale bisogno di amici e la sua solitudine nel vedere a notte i fari delle macchine degli amici che partivano.

Tante volte ci siamo incontrati in varie città d’Italia. Ed ogni volta era una festa! Immancabilmente mi chiedeva:“ ma che cosa ci fai tu qui?” ed io di rimando:“ tu piuttosto cosa ci fai qui?”
Ricordo una mostra di pittura ad Ancona , visitata insieme. Di fronte ad una Crocifissione del Tiziano “sentenziò” che per lui era la più bella, perché la più drammatica Crocifissione che avesse mai visto in originale.
Come posso dimenticare le sue appassionate conferenze su Don Primo Mazzolari , su La Pira, ecc ecc?


Mi è stato chiesto di raccontare . Non ho mai scritto nulla sull’argomento per cui sento anche una certa responsabilità, oltre la oggettiva difficoltà per il lungo tempo,14 anni, ormai passato.Tra l’altro molti hanno parlato e pubblicato di quel periodo anche con inesattezze per cui mi sono deciso.
Ad ogni modo per grandi linee le cose andarono cosi.
Ero a Bressanone e facendo visita alla Kurhaus del Dott. Von Guggenberg lo incontrai seduto, solo, sulla terrazza.
Confesso che un poco mi stupii di vederlo lì, in mezzo ad ospiti in genere nobili e blasonati ( pure sapendolo frequentatore abituale di abitazioni di personalità del mondo della cultura, dello spettacolo, dell’alta finanza ). Quel luogo, anche un poco esclusivo, era noto per le cure rivolte alla ricerca della forma fisica e del benessere e non immaginavo di trovarvi il friulano descritto dall’amico scrittore Luigi Santucci simile ad un “covone” ed ho fatto fatica ad immaginarlo alle prese con decotti al fieno, bagni di aceto, ecc.. ecc

Mi raccontò che un amico il Dott. Pino Glisenti gli aveva suggerito, e credo anche donato un soggiorno di due settimane a Bressanone perché con la diagnosi di “gastrite da stress”, tra l’altro confermata in prestigiose strutture mediche lombarde, l’ambiente e le terapie della Kurhaus gli avrebbero giovato.
Quando lo salutai per andarmene vidi il suo volto incupirsi e gli occhi inumidirsi. Capii subito che era in difficoltà, si sentiva solo a Bressanone e restai.
Per qualche giorno, credo una settimana, mi fermai io stesso alla Kurhaus.
Lo conoscevo spesso intollerante, per cui mai nessuno riuscì ad imbrigliarlo, eppure vidi con quanta umiltà e senza lamentarsi faceva cose per lui così strane, bagni di fieno, massaggi con aceto, camminate in acqua gelida alternate ad altre in acqua bollente.
Mi appariva buffo e goffo, in versione balneare, con il lungo accappatoio bianco e con ciabatte da cella di convento ( quelle da bagno, che gli regalai, perché sprovvisto, non erano in lui meno ridicole)

Pensavo agli scherni degli amici dell’infanzia che lo chiamavano “ Bepo rosso” o a Lillo Santucci che lo descriveva: “Altissimo e biondo come un covone, è un goffo arcangelo dalle mani enormi, che sono forse le sue ali mancate, a giudicare da come le sventola e le dibatte” , a Nazareno Fabbretti: “ Alto quasi due metri, biondo come un vichingo, con una voce dolorosa e violenta e due occhi pieni di fatica indistruttibile” ad Ettore Masina: “ uomo ingombrante, occupava spazio a dismisura”.
A ripensare a quelle situazioni, ancor oggi penso : povero David!.
E poi il vederlo così remissivo lui che come scriverà Alessadro Pronzato: “ Turoldo è intollerante.. Nessuno riuscirà mai ad imbrigliarlo, imprigionarlo non solo nelle ragnatele dei compromessi, ma neppure in quelle della “ ragionevolezza” ( da: Il coraggio di sperare ).
Aggredito da un dolore sempre più forte, alla notte non dorme; rassegnato ogni mattina mi ripeteva quasi come un triste ritornello, scuotendo il capo: “ Sandro, non va , non va; non ho chiuso occhio, ho passato tutta la notte seduto su di una poltrona ad aspettare l’alba”. Evidentemente anche la pure impegnativa terapia antidolorifica che assumeva non dava beneficio alcuno.

Mi decisi allora a telefonare a Sotto il Monte ai suoi frati e al Dott. Glisenti che aveva organizzato quel soggiorno perché a quel punto mi sono insospettito e ho pensato che forse Davide non era a conoscenza di avere un male serio. Mi confermarono la diagnosi che lui sapeva anzi mi invitarono a “non badarlo troppo” perché : “ tu lo conosci bene.”
Convinto e rassicurato mi sono prodigato per distrarlo. Ogni giorno andavo con la macchina in giro nelle vallate limitrofe, anche in alta montagna : gli ho fatto prendere seggiovie. Sulla Plose mi confidò con la emozione e con la gioia di un bimbo “ sai Sandro è la prima volta che prendo una seggiovia e che salgo così in alto” e poi ricordo una sosta di fronte alle Odle maestose estasiato dal paesaggio dolomitico, chiuso nei suoi pensieri, sofferente.

Si vedeva dall’alto il paese di Santa Maddalena, dove è nato il celebre alpinista Reinold Messner.
Tutto lo interessava: gli raccontai del nostro incontro all’Università di Padova, di lui iscritto ad Ingegneria, delle sue imprese alpinistiche in Himalaia, dei fratelli morti in montagna, della madre maestra che rimproverava alla montagna l’averle rapito i figliil suo impegno politico per le minoranze etniche e mi pare che, anche lui figlio della “piccola patria friulana” condividesse, sull’identità delle radici, il pensiero di Messner.
E poi sui sentieri camminando gli descrivevo la geomorfologia, l’orogenesi, gli mostravo la dolomia e le rocce vulcaniche, e la storia dei masi e l’antropologia del paesaggio. Interessato si congratulava della mia conoscenza dell’ambiente. Un giorno mi disse: “ mi mostri la natura sfogliandola come le pagine di un libro

”. Io ero orgoglioso ma soprattutto mi sentivo utile nel distrarlo dalla pena e dal dolore.
Penso che quei paesaggi, quelle montagne, quei colori, “ l’enrosadira”, abbiano poi ispirato i canti delle sue successive poesie.
Ricordo una visita ad una Chiesa moderna, in un quartiere periferico di Bressanone , verso la Plose. Il suo ammirato stupore, lui, cultore e cantore della bellezza, nel constatare come fosse riuscito il felicissimo connubio moderno ed antico.
Ricordo di incontri da lui volutamente “evitati” sulle strade di Bressanone con Montanelli , Manzù, Ratzingher , quest’ultimo in quei giorni in vacanza ospite del locale Seminario.
Ricordo la visita al Convento Benedettino di SabbionaLo costrinsi ad una lunga e faticosa camminata che fece soffrendo. Sempre pacifico, una unica ribellione con le suore benedettine che inflessibili gli chiusero, all’orario turistico, il portone in faccia pur essendosi detto monaco.

Ricordo la visita alla residenza estiva del Principe Vescovo in una località vicina a Bressanone. Stremato si fermò ad aspettarmi all’ingresso ed a malincuore, lui così curioso, ed interessato alle cose d’arte rinunciò. Capii che doveva fisicamente soffrire molto.
Quanto mi sono poi sentito in colpa delle mie forzature, dei miei programmi “ turistici” che gli “imposi” quando si scoprì il cancro!
Ci furono giornate in cui soggiornammo, ottenendo ospitalità, al Convento dei Cappuccini di Bressanone. Mi sono impresse nella mente la sua gioia nel potere regalare i suoi libri , con dedica al Vescovo Cappuccino, l’affabilità dei padri, in particolare del Padre Guardiano, il conversare pacato nella quiete serale , nell&rsrsquo;orto ; l’assistere al gioco a carte nel tavolo tra vigneti e verdure. Sembrava sereno prima della notte di solitudine e dolore. Con pazienza si portava il thermos con il “biberone” del Dott. Guggenberg e zelante ne beveva il contenuto.

Nella casa degli amici degli anni comuni all’Università di Padova Mirella e Mario Valdemarin, tutto quanto lo distraeva dal suo dolore fisico e morale lo interessava anche per la sua naturale propensione all’amicizia, alla convivialità , alla novità dell’incontro.
Nei momenti di pausa dal dolore era come al solito piacevole. Continuava il suo impegno di libero pensatore e commentava con forza gli avvenimenti dopo avere letto quotidianamente fasci di giornali.

Il giorno dell’Assunta ha celebrato una Messa drammatica nella cappellina domestica del convento dei Cappuccini. Ero il solo presente. Schiantato sull’altare per il dolore ha trovato l’energia per dirmi con forza: “questa Messa , questa nostra Eucarestia , vale come quella del Papa”
Decisi allora di chiedere all’amico Ing. Valdemarin la visita di un medico. A ridosso del Ferragosto era difficile. Eppure subito mi ottenne per il giorno 17 Agosto un appuntamento con il Dott. Armin Waldthaler, allora primario all’Ospedale di Vipiteno.
Siamo arrivati alle 9 della mattina. C’erano delle persone davanti a noi in ambulatorio. Nello stile del luogo: si entra a seconda di come si arriva. Davide non era abituato a fare anticamera. Ha “bofonchiato” per diverse volte. Non voleva fare la fila. Anche per il dolore. Leggeva il giornale ma poi si ribellava. A un certo punto si è alzato. Io ho avuto la sensazione che stavamo perdendo una grossa opportunità di avere finalmente la diagnosi vera per cui avremmo sbagliato a perdere quell’opportunità. Io deciso gli dico: “ se vuoi andare, vai pure. Io aspetto il turno e dico al medico che dal dolore sei andato”. Ma lui è uscito; per fortuna dopo poco è tornato, chiedendo scusa.

Entrati, ha chiesto che anch’io rimanessi. E anche il medico ha acconsentito che fossi presente. Davide quasi a giustificazione della visita, convinto di avere la gastrite da stress, si scusò dicendo: “ Dottore io non ho nulla, e non volevo importunarla; sono qui per l’insistenza dell’amico SandroMa mi tolga il dolore, la supplico, mi dia qualche farmaco.”
Con fermezza teutonica il medico di rimando: “prima La visito poi deciderò”.
Ecografia, fatta nello studio direttamente dal primario, piuttosto lunga, difficoltosa, ma condotta da chi ha il dubbio e vuole risposte.

Alla fine mi mostra il monitor, io naturalmente non capisco nulla, ma mentre David si riveste il medico mi comunica la presenza di una macchia al pancreas di sospetta natura tumorale.
(Quando in un secondo tempo chiesi al Dott. Waldthaler , come ha fatto a scoprire il cancro, mentre altri medici, anche di valore in strutture ospedaliere prestigiose , anche poco tempo prima hanno escluso e diagnosticato “gastrite da stress” mi ripose : “io credo sempre ai pazienti che lamentano dolore, verifico, sino a quando ho scoperto la causa ; è molto semplice”)
Ritiene necessaria una Tac di conferma . Il giorno venerdì 19 Agosto 1988 accompagno con auto di prestito dei Waldemarin ( la mia W era in panne) Davide all’Ospedale di Bolzano E’ tutto laborioso perché la macchina della Tac è rotta; non serve certo la dolcezza di una suora che argomenta a placare l’insofferenza caratteriale di Davide.
Finalmente è fatta. Il medico mi dice che è confermato il sospetto del Dott. Waldhaler, ma mi dirà meglio al telefono nel pomeriggio.
Davide è stanco e depresso, non vuole tornare a Bressanone, “luogo dove ho tanto sofferto” e mi chiede di accompagnarlo “a casa, a Pietralba”.

A Pietralba

I frati, che ancora non sanno della malattia, lo attorniano festosi. Vecchi della sua generazione, che prende in giro con tanto affetto; giovani, come Fra’Antonio Santini, che mostrano a lui le ultime novità (mostra nel fienile adattato a Casa dei Congressi). Il Priore, Fra’ Emilio Bedont, dice: “Dopo tante disgrazie, arrivi anche tu ora” (domenica 17 Luglio era stato a Pietralba il Papa, Giovanni Paolo II)
Davide polemizza scherzosamente sulla visita del Papa.
In refettorio mi racconta orgoglioso e commosso che il rivestimento in legno era stato commissionato dai Servi di Santa Maria al fratello falegname, Lino, negli anni ’30 anche per toglierlo dalla miseria in cui tutta la famiglia Turoldo versava.
Dal telefono ho la conferma di macchia al pancreas e di ipotesi di cancro.

Mi pongo rapidamente il problema di come e a chi comunicare la drammatica diagnosi. Prima di entrare in refettorio, verso le tre del pomeriggio ( “l’ora nona” da lui poi descritta nella poesia), vado un attimo in Chiesa a “consultarmi”.
Entro in refettorio e trovo Davide , solo, seduto al posto vicino alla porta della cucina. Allora decido. Gli dico: “Davide hai un cancro al Pancreas”. Risponde sereno, ma con la consueta voce baritonale, e dando un pugno sul tavolo, liberatorio dopo mesi di tensione: “ Osti, finalmente so cosa ho, non potevo sopportare che mi dicessero che non avevo niente, come una giovane innamorata Quello che mi dispiace è che, vedrai, morirò sotto la costellazione di”. E nominò un eminente politico allora al Governo.

Torniamo a sera a Bressanone dai Padri Cappuccini.
All’indomani, sabato 20 agosto, sentiva il bisogno di stare in mezzo alla natura . Siamo andati con i Valdemarin nei dintorni della città in una pineta. Mentre camminavamo, lui, con le mani dietro la schiena, ascoltava il crepitare dei passi e di tanto in tanto alzava lo sguardo in alto, stupito dalla essenzialità e verticalità dei tronchi. Diceva: “Sono così perché cercano la luce; tutto il creato naturalmente è proteso verso l’alto a cercare la luce”.
Un operaio che riparava un impianto elettrico lo riconobbe, si complimentò con lui delle battaglie politiche e a Davide faceva piacere, gratificato.

Quella silenziosa camminata nella pineta, da lui immaginata come una chiesa inondata di incenso, gli ha ispirato quella poesia che alla sera ha scritto e che mi legge (prima versione, poi in parte riveduta):

Ti sento, Verbo, risonare dalle punte dei rami
dagli aghi dei pini, dall’assordante
silenzio della grande pineta
– cattedrale che più ami – appena
velata di nebbia come
da diffusa nube d’incenso il tempio.

Subito muore il rumore dei passi
come sordi rintocchi:
segni di vita o di morte?

Non è tutto un vivere e insieme
un morire? Ciò che più conta
non è questo, non è questo:
conta solo che siamo eterni

Non so come, non so dove, ma tutto
perdurerà: di vita in vita,
e ancora da morte a vita
come onde sulle balze
di un fiume senza fine.

Morte necessaria come la vita,
morte come interstizio
tra le vocali e le consonanti del Verbo,
morte, impulso a sempre nuove forme.

E ancora a riflessione di quanto drammaticamente gli avevo detto nel refettorio di Pietralba, ha cantato ancora:

Ieri all’ora nona mi dissero:
il Drago è certo, insediato nel centro
del ventre come un re sul trono.
E calmo risposi: bene! Mettiamoci
in orbita: prendiamo finalmente
la giusta misura davanti alle cose;
con serenità facciamo l’elenco:
e l’elenco è veramente breve.
Appena udibile, nel silenzio,
il fruscio delle nostre passioncelle
del quotidiano, uguale
a un crepitare di foglie
sull’erba disseccata.

La domenica gli amici Giorgio Luzzi, il confratello Servita Fra’ Camillo de Piaz , l’amico ed il compagno di sempre, accompagnati dall’Elena Gandolfi Negrini ai quali aveva telefonato del suo male, vengono a trovarlo a Bressanone. L’incontro emozionante è all’abbazia di Novacella. Ho le foto dell’incontro e dell’abbraccio con Camillo de Piaz “ il fratello ramo necessario al tronco dell’annosa amicizia” , come Davide l’aveva chiamato in una poesia dal titolo “ Eravamo l’albero verde”.

Mi domanda consiglio, fidandosi totalmente di me e mettendosi nelle mie mani.
Telefono al Dott. Waldthaler, il quale pensa che convenga indagare chirurgicamente il genere di male, con un intervento. Propose di sottoporre l’ecografia e la TAC a un valente chirurgo di Monaco di Baviera, per caso di passaggio in Italia. Mi ha comunicato che il chirurgo sconsigliava qualsiasi intervento, perché ormai troppo tardi. Lo dico a Davide e lo vedo molto rattristato.

Telefono allora a Padova all’amico chirurgo prof. Ermanno Ancona e chiedo consiglio, descrivendo al telefono la situazione. Mi risponde che, valutando costi e benefici, in questi casi è meglio non intervenire e che statisticamente la speranza di vita è in media di quattro mesi. È preferibile seguirlo con una terapia antidolorifica, per dargli una qualità di vita decente. A Davide dico che l’amico sconsiglia l’intervento perché a questo punto non servirebbe; è meglio gestire il dolore.
A Davide si inumidiscono gli occhi. Non accetta la morte, lui che l’aveva con tanta sicurezza esorcizzata, teorizzata, descritta.
Nuova telefonata al Prof. Ancona. Risposta: “Te si el solito rompi, vien zo”.Lo dico a Davide che sorride sollevato dal fatto che qualcuno si prende cura di lui e gli dà una speranza.
Mercoledì 24 Agosto: viaggio a Padova all’Ospedale C.T.O. Nello studio del chirurgo, lunga chiacchierata su vari argomenti. Verso le 13,30, guardando l’orologio, il Professore si accorge che si è fatto tardi e telefona alla moglie: “Prepara il pranzo anche per Sandro ed un suo amico”.

A Tencarola, prima di Praglia dove abita, si mangia, si beve, come se niente fosse.
La conversazione è stata talmente imprevedibile e interessante che l’amico resta impressionato. Gli chiede di scrivere un suo pensiero nel libro degli ospiti di casa. Davide scrive questa frase: “ Felice anch’io di essere entrato nella “ casa del vizio”dell’amicizia. Grazie a Sandro!”
Nel tardo pomeriggio, quasi ci svegliamo da questa atmosfera magica di agape fraterna e si va in ospedale.
Il lungo tempo di silenzio, durante il quale il professore compie l’esame dei documenti e delle cartelle, senza mai chiedere niente, è solo interrotto da Davide che gli domanda se può intervenire presto, senza sottoporlo ad altre sfibranti indagini. Il chirurgo non risponde, ma lo ricovera direttamente e dopo poco lo opera.
L’intervento è riuscito e così la degenza. Ricordo di numerosissime ed interminabili visite di amici accorsi da tutta Italia : Don Tonino Bello, Lino Pacchin, Abramo Levi, Giancarlo Bruni, i coniugi Glisenti e tantissimi altri.
Parte della convalescenza la farà, insieme all’amico Fra’ Camillo, a casa mia al mare a Moneglia, in Liguria, dove scriverà poesie splendide.

Quando , in giro per l’Italia e all’estero fu richiesto, subissato di premi, di riconoscimenti, mai mancò di ricordare il “drago”, di testimoniare affetto e riconoscenza a chi glielo aveva diagnosticato, rivelato e curato.
A me personalmente nel libro che mi donò a casa dell’amico comune Mons. Gianfranco Ravasi nella Pasqua del 1990, scrisse la dedica: “A Sandro dal sempre indebitato David Maria”. (Spesso però, nelle mie necessità mi viene spontaneo il rinfacciargli mentalmente la promessa e gli dico: “sdebitati, adesso che puoi!”)
Era anche convinto che aveva resistito al cancro e che il suo male forse era stato sconfitto come disse a Brentonico ( Trento) in una serata indimenticabile organizzata dalla associazione Rosa Bianca. Invece vinse il male, che ci rubò il “profeta”, il 6 Febbraio 1992.

Sandro Bonardi