dal Messaggero Veneto del 4/03/2002

Oggi doppio appuntamento al Giovanni da Udine: la mattina con i ragazzi, la sera con “Gli ultimi”

Gli studenti protagonisti di un incontro dedicato al suo pensiero e alle sue opere


di GIORGIO LAGO
E’giovane padre David Maria Turoldo. E più passano gli anni, più ringiovanisce: questo il bello delle sue cose, che sono tante, tantissime, testimoniate, scritte, dette, cantate, messe in versi.Un fiume in piena e pieno di sostanze nutrienti, fino all’ultimissimo istante.
Il 2 febbraio del 1992, quattro giorni prima di andarsene, predicò in televisione dalla cappella della clinica milanese. Era giorno di festa, una domenica, e lui si congedò dicendo: «La vita non finisce mai».

Aveva ragione da vendere. La vita di Turoldo continua come se niente fosse, attraverso i suoi segni.
“Segno” era una parola che gli piaceva un sacco, e che amava anche rimarcare in latino: “signum”, come traccia, impronta, indizio di qualcosa, segnale di una presenza. Una volta mi fece una confidenza che qui, su una pagina friulana, a casa sua, forse posso raccontare per la prima volta dopo più di dieci anni.
Lui sosteneva che il Papa, qualunque papa beninteso, non si sarebbe dovuto chiamare “vicario” di Cristo in terra, e per spiegarsi meglio usava una similitudine militare: «Tra generali – mi diceva – si ha il vicario quando il generale è assente. Dio è assente?».

Ricordo che risposi di getto con uno sconcertato «no». Padre David non mi ascoltò nemmeno, proseguendo: «Già Papa Giovanni aveva capito che era una cosa così… Meglio segno; meglio signum, che vicario, di un Cristo sempre presente».
Era originale, anticonformista. La sua religione era pochissimo rito e tantissimo fuoco: per questo l’ho sempre considerato un incendiario di Dio, un prete che faceva scottare la fede.
La formidabile modernità, anzi contemporaneità di Turoldo sta proprio nel disossare la fede fino all’essenziale . La sua fede è un salmo più che un dogma; è un mettersi di traverso più che mettersi in coda .

Anche il suo quotidiano Vangelo si intrecciava sempre con la vita di tutti i giorni. Faccio un esempio che padre David raccontò, tele-intervistato da Alberto Castellani, per spiegare la sua particolare devozione verso la Madonna.
Da ragazzo, di una famiglia di Cassacco sotto la soglia della povertà, andava con la mamma alla Basilica delle Grazie di Udine, dove scoprì che il volto di suo madre tutta vestita di nero e il volto della Madonna addolorata erano la stessa cosa, unite dal dono di sé ai figli. Lo disse con parole molto belle: «Per me era la stessa maternità, che anzi diventava il simbolo di tutte le madri del mio Friuli».

Lo chiamavo scherzosamente “il mio Isaia”, ma tutti quelli che lo hanno studiato da vicino sono sempre stati concordi nell’attribuirgli una voce profetica. Figuriamoci, non che svelasse misteri né che si sentisse ispirato: “profetico”, almeno io credo, nel significato più antico ed etimologico del termine. Un parlare prima, cioè un piazzarsi sempre là dove gli uomini incontrano le passioni, i drammi e le speranze, per camminare con loro, possibilmente un passo avanti. Quel passo era la sua profezia .
È giovane Turoldo, oggi più che mai, anzi sembra quasi che gli interessi soltanto riparlare ai giovani, visto che il suo pallino fu sempre il futuro e il suo nemico mortale il Nulla. Turoldo scrive “Nulla” maiuscolo, considerandolo il male più infiltrato tra noi, come fuga dell’individuo dalla responsabilità.
Attenzione, non è una predica, né una litania moralistica. Padre David piccona l’indiferrenza e il girarsi dall’altra parte, senza distinguere tra credenti e non, tra dubbiosi e tormentati. Gli interessa prendere in contropiede il Nulla e fargli gol con la Speranza.

Nella massa dei ragazzi, gli capitò di distinguere tre filoni, lo scoraggiato, il fanatico, l’aggregato per paura. Ma scommetteva sul quarto, citando il grande scrittore cattolico francese George Bernanos quando invitava i giovani a stare con la testa nella realtà ma «per far fronte a ogni evento». Non per dormirci sopra.
Era energico, forte, disperato e/o felice Turoldo; scomodo soprattutto per i cattolici. Ha sempre pagato tutto, le idee, gli errori, gli interventi nella politica, le incursioni nell’orto dei timorati, la sua pace senza paura. In un mondo prosaico, ha comunicato con la poesia; in mezzo a tanto vociare, ha restituito voce a qualche valore.
Una volta ha detto a Sandro Comini: «Il mio punto di partenza e di arrivo è il Friuli», e considerava simbolo della gioia di vivere il vino. Sì, i pensieri, i versi e il canto di David Maria Turoldo andrebbero curati come un vitigno dell’anima.
Il doc di Dio, anche per chi non crede.
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Grande attesa per la pellicola restaurata
Fra teatro e cinema


Il Giovanni da Udine è interamente dedicato per un giorno a padre David Maria Turoldo. Si comincerà la mattina, alle 10, con gli studenti delle scuole superiori di Udine e provincia e si proseguirà la sera, alle 20.30, con la prima proiezione della copia restaurata de Gli ultimi.
L’incontro mattutino sarà condotto dal giornalista Giorgio Lago, presenti monsignor Alfredo Battisti, gli assessori provinciale e comunale alla cultura, Cigolot e Cargnelutti, il sovrintendente scolastico regionale Bruno Forte, il presidente del Forum di Aquileia Paolo Maurensig, e Renato Stroili Gurisatti, coordinatore del progetto David Maria Turoldo: una voce dal Friuli.

L’appuntamento, organizzato dalla Consulta provinciale degli studenti, coordinata dal Dino Del Ponte, comincerà con la proiezione di un filmato dedicato a padre Turoldo. Faranno seguito l’intervento di Giorgio Lago, e quindi la lettura di poesie e testi teatrali turoldiani da parte di studenti del Malignani di Udine, dell’Einaudi di Palmanova, del liceo scientifico di Cervignano, degli istituti di Latisana, dell’Uccellis e del Percoto di Udine. È previsto anche l’intervento degli attori Werner Di Donato e Saverio Indrio, affiancati da Carla Lugli e dai musicisti Mariateresa Bazzaro e Tiziano Cantoni.
In serata, l’anteprima della copia restaurata de Gli ultimi. Udine, si potrà vedere l’attesissima copia restaurata del film Gli ultimi di Vito Pandolfi e David Maria Turoldo e una serie di materiali inediti. Non solo ricompariranno i bianchi e neri contrastati della campagna friulana, scelti dal direttore della fotografia Armando Nannuzzi, ma si vedranno per la prima volta anche alcune scene mancanti, i provini con gli attori e il trailer originale. Alla serata parteciperanno i protagonisti del film, scelti allora da Pandolfi tra la popolazione friulana, Adelfo Galli, Checo, Vera e Leo Pescarolo, rispettivamente interprete nel ruolo della maestra e aiuto-regista.
All’appuntamento udinese ne seguirà, domenica, uno tutto milanese, nello Spazio Oberdan della Cineteca Italiana.
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Riappare un film apprezzato ma non amato
Il Friuli che non c’è più


di SABRINA BARACETTI
Signore, iutaci a guarire dai nostri possessi”. Turoldo chiudeva così la poesia Salmodia della povera gente, dedicata al fratello Lino, in cui si scusa con la sua famiglia per non essere rimasto a condividere la povertà della sua terra. Ma Turoldo, poeta esiliato per imposizione e per necessità, il suo Friuli non l’aveva mai abbondonato. Cantore di una terra lontana vissuta nel ricordo come l’unica capace di dare forza salvifica all’umanità, poichè sola a poggiare su valori essenziali e necessari, padre David sentiva l’urgenza di agire, di consegnare alla storia e alla memoria una testimonianza tangibile di una povertà intesa come infinita ricchezza. E così, negli anni Sessanta, sfidando ogni ostacolo, ogni perplessità, sceglie il cinema per comunicare la sua ansia di “rivelazione”. Del cinema si era innamorato da tempo, lo considerava un mezzo tra i più efficaci e dignitosi per parlare agli uomini della contemporaneità. «Da questa mia passione si è sviluppata anche la volontà di impegnarmi e sperimentare di persona il mezzo cinematografico». Gli ultimi nasce sullo sfondo di queste riflessioni.

Impareggiabile trascinatore di uomini e di mezzi, padre David, non solo riuscì a racimolare la somma necessaria alla realizzazione dell’impresa – poco più di sessanta milioni, presi in prestito da amici e da vecchi emigranti friulani all’estero – ma coinvolse in questa idea rivoluzionaria una troupe di assoluto rilievo: dal direttore della fotografia Armando Nannuzzi (a lui si deve la preziosa bellezza delle immagini in bianco e nero) agli scenografi Bruno Vianello e Gigi Persello (che ricostruirono con precisione gli ambienti contadini di Coderno); dal curatore delle musiche Carlo Rustichelli, alla montatrice Jolanda Benvenuti fino all’aiuto regista Leo Pescarolo. Ma primo fra tutti Vito Pandolfi, cui Turoldo affidò la regia; uomo di teatro, studioso dello spettacolo, Pandolfi, di formazione laica, era legato a Turoldo per aver condiviso con il frate l’esperienza della Resistenza a Milano.

Nato da un racconto intitolato Io non ero un fanciullo – uno scritto intimo e personale, dettato e motivato da un vissuto reale, fortemente autobiografico – il film riflette alcuni topoi della poesia di Turoldo: il ricordo del paese natio; la figura della madre; la miseria vissuta con dignità e non rassegnazione. Temi che sono illustrati attraverso la storia del pastorello Checo, figlio di contadini affittuari nel Friuli degli anni Trenta, che per la sua indigenza viene continuamente deriso dai coetanei. I bambini del villaggio si prendono gioco di lui paragonandolo agli spaventapasseri. Questi fantocci diventano il suo incubo più terrificante, più pauroso della fame, più agghiacciante del freddo, della miseria e dell’opprimente condizione familiare che si rispecchia in una durezza di gesti e sentimenti. Il fanciullo li sente talmente vicini che finirà per identificarsi con uno di loro fino a quando, nel finale, sarà in grado di distruggerli e affrontare con risolutezza ed orgoglio la sua esistenza di povero ma ricco delle necessità della vita.

Checo simbolicamente rappresenta il Friuli con la sua umanità dimenticata; un Friuli, terra isolata, povera e depressa che farà della propria miseria non una vergogna ma un valore, una fonte di forza da imporre al resto del mondo.
L’attesissima prima del film si tenne al cinema Centrale di Udine, gremito di pubblico, il 31 gennaio 1963. Ma dopo il successo della prima, il Friuli reagì negativamente. Offesi, i friulani non si riconobbero nella famiglia contadina di Checo; sentirono la propria dignità svilita da una rappresentazione reputata misera e denigratoria della loro terra. Accanto alle contestazioni, vi erano tuttavia i pareri elogiativi della critica: il film ottenne a livello nazionale recensioni incoraggianti, arricchite dai lusinghieri apprezzamenti di personaggi quali Pasolini che ne parlava in termini di «assoluta severità estetica» e Ungaretti che lo considerava un’opera di «schietta e alta poesia».

Dopo la prima udinese, Gli ultimi circolò pochissimo in Italia. I tempi non erano maturi per accettare un’opera in sé anomala nel contesto storico dell’Italia degli anni Sessanta. Turoldo dovette lottare contro molti pregiudizi: la scarna realtà del film suscitava in chi era già inevitabilmente proiettato verso il miracolo economico un profondo disagio ed un senso di rifiuto verso qualcosa che appariva vecchio e superato. La sorte de Gli ultimi era segnata. «Ho avuto il torto di avere ragione troppo presto» amava ripetere Turoldo, forse amaramente, commentando il successo de L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi, uscito nel ’78, di cui per molti versi aveva anticipato lo spirito.

Ora che il mondo di Turoldo è morto del tutto e che la polenta, l’alimento fondamentale del Friuli povero della sua infanzia – nel film sostentamento prezioso dei contadini affamati – è diventata “cibo raro, da ricchi”, rivedere Gli ultimi, finalmente restaurato, appare un’esigenza ancora più forte: un’occasione unica di confronto con una realtà storica e sociale volutamente e colpevolmente dimenticata.
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Un nuovo-vecchio libro tratto da un’intervista del luglio 1991
La confessione e l’autoanalisi


di MARIO TURELLO
Un nuovo libro di David Maria Turoldo? Sì e no. Il testo recentemente edito da Mondadori (226 pagine, 15 euro) col titolo La mia vita per gli amici corrisponde in gran parte a quello “contenuto” nel libro di Maria Nicolai Paynter Perchè verità sia libera (Rizzoli 1994). Turoldo ancora vittima (recentemente il suo Mia terra addio è stato riproposto con l’infelice titolo Il mio vecchio Friuli) della cattiva abitudine di gabellare per nuove opere che non lo sono affatto? In questo caso le cose sono un po’ più complesse, e mi assumo il compito – che spetterebbe all’editore e ai curatori – di fare un po’ di chiarezza (in verità tutto è detto, nel/del nuovo volume, ma molto confusamente).
Tutto ebbe inizio nel 1989, quando Turoldo ricevette il Premio Silone, e con lui fu premiata pure Maria Nicolai Paynter, docente di letteratura italiana alla City University di New York. Fu subito amicizia, e la Paynter propose a Turoldo un’intervista: uno «scroscio di domande» cui il frate poeta, nell’incombenza della morte, rispose di buon grado; e fu un’autobiografia e un testamento spirituale che egli scrisse rispettando per lo più lo schema e l’ordine proposto dalla studiosa.

Nel volume del 1994, in appendice, sono riportate in parallelo le domande della Paynter e l’organizzazione delle centoquarantadue pagine del manoscritto turoldiano. A esso venne poi data la forma dell’intervista, e fu oggetto non soltanto di una ricombinazione delle sue parti, ma anche di integrazione con inserti da altre opere di Turoldo e commenti, puntualizzazioni, interpretazioni della stessa Paynter, che all’intervista fece seguire un proprio saggio sulla poesia di Turoldo (Dal Genesi a Giobbe: l’itinerario poetico) e la registrazione dell’ultimo colloquio (a Lecco, il 10 luglio 1991) con un padre David fisicamente provatissimo, ma ancora desideroso di completare la propria «consegna della speranza». Il tutto, opportunamente corredato da bibliografia e indice analitico, ricevette il già ricordato titolo Perché verità sia libera e il sottotitolo Memorie, confessioni, riflessioni e itinerario poetico di David Maria Turoldo.

Il volume ora pubblicato da Mondadori ripropone la stesura ultima di quel manoscritto: non più intervista (anche se la Paynter figura ancora come curatrice), ma opera autonoma che Turoldo avrebbe voluto – ma non poté – sviluppare con l’aiuto di Marco Garzonio, cui si deve la proposta del testo restituito alla sua forma originale.
Ed è di Garzonio il saggio che, concepito come premessa-guida alla lettura del libro, viene inconsultamente relegato in postfazione, dopo il saggio critico della Paynter qui riportato, piuttosto incongruamente ma soprattutto malamente, con numerosi refusi che spesso ne compromettono la corretta lettura.

Operazione dunque di valore soprattutto filologico, ma compaiono qui anche alcune pagine (sulle “battaglie” di Turoldo; sul rapporto tra la sua poesia e il suo teatro) assenti nel libro-intervista, non so se per omissione o per essere aggiunte successive (e si poteva darne ragione).
Neppure stavolta, però, vengono rispettate le indicazioni di padre Davide per il titolo: Vocazione e Resistenza, titolo forte, viene qui soltanto aggiunto in minore al più edulcorante La mia vita per gli amici. Insomma, si poteva fare di meglio.
Ciò nulla toglie comunque all’interesse e al fascino di questo bilancio autocritico (ma non negativo) del frate poeta: al binomio “vocazione-resistenza” si possono ricondurre tutti gli aspetti dialettici della personalità dell’uomo, del cristiano, del frate Turoldo che qui si confessa e si assolve: libertà e obbedienza, orgoglio e umiltà, fede e disperazione, prassi e canto, ragione e contemplazione, tradizione e innovazione, radicamento e universalità, irruenza e tenerezza, oltranza e limite, uomo e Dio. Apparenti ossimori, opposti invece che trovano la loro coincidenza nel mistero dell’incarnazione, che rende equivalenti teologia ed antropologia: ma con un impegno prioritario per l’uomo, per i poveri, in nome della giustizia prima ancora che della carità («la Chiesa invece – scrive Turoldo – non ha mai sposato la possibilità di cambiare sistema: non ha mai canonizzato i santi della giustizia, preferendo in assoluto quelli della carità. I caduti della giustizia non entrano nel suo calendario, per ora»).

Oscillazioni comunque estreme, polarità che si riscontrano anche nel dipanarsi del testo, nell’alternanza di argomentazioni serrate e di aneddoti divertiti (e in questi soprattutto suona irriducibile l’ironia, il sarcasmo di Turoldo fustigatore dei compromessi, delle mistificazioni, delle violenze dei singoli e dei sistemi, a cominciare dalla Chiesa-istituzione), di rivendicazioni appassionate e di ammissioni (poche però queste: lo stesso capitolo sulla «battaglia più sbagliata» di fatto non riconosce errori), di memoria, anche nostalgica, e di speranza, nonostante tutto.

Nessuno è il miglior giudice di se stesso, ma l’imminenza della morte sembra inclinare l’autoanalisi dell’irriducibile Turoldo a una franca equanimità: e da queste pagine si dovrà ripartire per una più ponderata valutazione della sua figura e della sua vicenda. Soprattutto della sua poesia, che fu preghiera e profezia («la profezia non è annuncio del futuro, ma la denuncia del presente nel confronto con la Parola») e travaglio di dire l’indicibile, radicata sempre nella Scrittura (ripercorsa tutta, dal Genesi all’Apocalisse, nella sua produzione lirica), e alla Scrittura da ultimo (per sedici anni!) restituita (restituzione di salvifica bellezza, a ravvivare e nobilitare le liturgie): ma fu l’ultima, la più amara delusione dell’eterno perdente, e mai sconfitto.

E del teatro, scandito sempre liturgicamente, secondo la sua primigenia natura: «Se la mia poesia è il giornale della mia anima, il mio diario, quel poco di teatro che ho scritto segna invece l’eruzione vulcanica del mio essere, del mio Io in combattimento. La poesia va letta come esistenza che si fa canto, o gemito, o preghiera; il teatro è la guerra dichiarata».
Parole a incarnare la Parola.
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La figura del frate di Coderno rivisitata sotto svariati punti di vista
Una serie di saggi sul suo “Servitium”


Nel 1992, a pochi mesi dalla morte di Turoldo, la rivista Servitium, da lui stesso fondata e animata, gli dedicò un numero monografico, ricco di contributi importanti (ricorderò almeno quelli di Camillo De Piaz, Gianfranco Ravasi, Giorgio Luzzi) un volume degno di più vasta circolazione (perché non ripubblicarlo?). Col titolo La grande passione la stessa rivista (n. 139, gennaio-febbraio 2002, 120 pagine, 7,75 euro) gli rende omaggio a dieci anni dalla morte, con nuovi contributi utili a meglio conoscerlo e – poiché ve n’è ancora bisogno – a rendergli giustizia.

Apre la serie Abramo Levi col saggio Dietro i tempi di Turoldo (scritto purtroppo con piglio fin troppo ricercato e metaforico, al punto di riuscire criptico) che ha come temi salienti la “relazione clandestina di Davide con Dio” (relazione che lo vede in scena con gli «spiriti magni» di Giobbe e Qohelet) e una sorprendente reintepretazione dell’intenzione poetico-profetica di Turoldo e della sua «impazienza» escatologica.
Impazienza che coincide, credo di poter dire, con la «resistenza» di cui parla Raniero La Valle (Padre David tra l’esperienza della fine e l’annuncio di un nuovo inizio) rievocando i tempi della speranza (il vertice di Reykiavk, la perestrojka, l’abbattimento del muro di Berlino) che Turoldo credette prossima a realizzarsi tanto che scrisse un manifesto programmatico per i nuovi tempi: ma già prima che morisse era iniziata (con la guerra del Golfo) la rilegittimazione della guerra come strumento ordinario del governo del mondo. Interessante l’articolo di La Valle anche per il racconto della parte avuta nel caso Moro da Turoldo, e del suo rifiuto del «pensiero vittimario» (si pensa a Girard…).
Seguono poi, col titolo Verso Emmaus (si riferisce alla casa d’accoglienza voluta da Turoldo accanto all’abbazia di Fontanella), le testimonianze di Gion Gieli Derungs e Maria Cristina Bartolomei, che illuminano le peculiarità di padre David: il suo vivere «poetico e patetico, il suo rispetto paritetico della religiosità e della laicità, la sua mistica “feriale”, la sua libertà, il suo credere «semplicissimo, antico, tempestivo e complesso», il suo cristianesimo radicale, ecumenico e “anticlericale”, il suo senso sacramentale dell’amicizia.

Molto belli pure gli interventi di Bernardo Antonini La parola, soprattutto per la sottolineatura del valore salvifico attribuito da Turoldo alla povertà, e del suo porsi dalla parte degli ultimi non per scelta politica o sociale, ma antropologica e teologica («è il senso della pietà e della giustizia che salva la stessa fede”) e di Gianfranco Ravasi La lettura; di questo ricorderò solo la distinzione dei tre approcci di Turoldo alla Bibbia: estetico, mistico, attualizzante, e l’indicazione di una seconda, non meno importante «tipologia di lettura» di padre David: l’incontro con gli altri, la lettura dei cuori e delle menti.
È poi Eliseo Grassi che ripercorre l’impegno e le lunghissime fatiche innologiche di Turoldo, secondo il cardinal Martini «l’innografo più prolifico e capace» dopo Efrem il Siro e Romano il Melode, e per Grassi «degno successore di sant’Ambrogio», mentre Giovanni Bianchi propone alcune riflessioni sull’opera teatrale: risposta profetica all’ansia apocalittica in un contesto essenzialmente liturgico, con la poesia dei monologhi o del coro che «gioca a rimpiattino con il testo biblico»; teatro «che si fa azione, energia, scuotimento dell’anima» nella tradizione delle sacre rappresentazioni medievali.

Infine Adolfo Asnaghi, con uno spunto interessante sui referenti teologici e filosofici di Turoldo (tra essi Parmenide!), e Carlo Micheletti che racconta come a Fontanella si sia imparato e si continui a «vivere la Chiesa» nella celebrazione, nell’accoglienza, nel dialogo.
In appendice, una preziosa antologia di scritti di Turoldo apparsi su Servitium tra il 1967 e il 1989, raccolta e presentata da Espedito D’Agostini.
M.T.
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