IV domenica dopo il martirio del Battista B

Gv 6,41-51

 

È la domenica del pane che
alimenta le forze: mangia perché troppo
lungo per te è il cammino. Nella nostra vita distratta, spesso, e talvolta
persa nei deserti del dolore, il Signore Gesù ripete: Io sono il Pane che dà la vita, l’unico che colma le profondità della
vita. Iniziamo, allora, domandando perdono se ci nutriamo di infinite cose
ma non dell’unica che dà la vita.

Dice il Profeta: “Ora basta,
Signore, prenditi la mia vita”.
Per gli smarrimenti nei giorni del dolore, per la
tentazione di arrenderci, per i peccati contro la speranza, Kyrie
eleison

Dice il Signore: “Io sono il
Pane della vita”
. Perché spendiamo energie e tempo e denaro per cose che non saziano, Kyrie
eleison

Dice il Signore Gesù: “nessuno
può venire a me se il Padre non l’attira”.
Per quando si è spento il
desiderio di te, e tu ci sei parso senza attrattiva alcuna:  Kyrie eleison

 

 

La liturgia della parola si
è aperta con una delle pagine più suggestive, il racconto della fuga, lunga e
disperata, del profeta Elia davanti ai sicari, nel deserto. Stanchezza, paura,
fame e sete, ed Elia, l’indomito, si arrende: cade a terra, si trascina al
povero riparo di una ginestra e prega: «Basta
Signore, non ce la faccio più; riprenditi questa vita, meglio la morte di
questa fuga disperata».

Sfinito, cade in un torpore,
da cui una carezza lo sveglia. È un angelo, che gli dice: «Alzati, mangia!». Che cosa gli fa trovare
l’angelo per affrontare deserto e sicari?
un pane, un orcio d’acqua, e
la sua carezza. Quasi niente.

Ma si tratta di risorse che
hanno lo scopo non di mettersi al posto del profeta, ma di risvegliare lui,
ridestare la forza del corpo e quella del cuore. Il profeta camminerà con le
sue gambe, non su mani d’angeli, con le sue forze, per quaranta giorni, fino
all’Oreb: pane, acqua e una carezza bastano a renderlo di nuovo protagonista.

Il miracolo più vero è la
capacità dell’uomo di avanzare senza miracoli, con pane e acqua. E una
presenza. Con i nostri angeli quotidiani.

Il profeta Elia sta davanti a Dio e ha paura. Pur
avendo udito la sua parola, pur avendo deciso di obbedire alla sua volontà, il profeta di Dio ha paura.
Ha paura degli uomini che lo inseguono per ucciderlo e per vendicarsi: ha sgozzato
con il suo coltello 450 profeti di Baal, al torrente Kison.

Elia fugge. Fugge anche da questo Dio che forse gli ha
chiesto troppo, che lo ha messo in pericolo e che non riesce a comprendere. Ha
svolto la sua missione, e ha paura.

L’umanità del profeta non è annullata dalla vocazione
che ha ricevuto, Dio lo ha incontrato nella sua umanità, e non lo ha
trasformato in un super eroe della fede. L’uomo e la donna che obbediscono alla
voce di Dio, gli obbediscono con tutta la loro normalità.

Così Elia fugge e si arrende, si arrende ad una realtà
che non capisce. Elia non capisce come mai ora, pur avendo obbedito a Dio,
debba tanto soffrire.

Ma Dio non si accontenta del timore, della stanchezza,
dell’incomprensione, non accetta che ci arrendiamo, che la nostra vocazione si
sgonfi al punto di non volerci più rialzare. Con Dio c’è sempre un poi. Apre
cammini.

Elia vorrebbe concludere lì il suo ministero, per
trovare pace, ma Dio lo tocca, gli mette la sua mano addosso. Con Dio non c’è
pace.

Non c’è la pace che noi crediamo, la pace di non fare
nulla di compromettente, di non doversi impegnare, di non dover fare i conti
con le nostre contraddizioni.

La pace di Dio, quella che egli ci offre è un’altra
cosa: è la pace del giusto in mezzo all’ingiustizia, del mite in mezzo agli
arroganti, di chi sa riconciliarsi, di chi sa fare pace con l’umiltà e non con
la guerra.

La mano posta sopra ad Elia non è la mano della
consolazione, la mano del genitore che accompagna il proprio piccolo nel sonno.
Dio non è d’accordo con Elia e non gli dona il sonno sperato. La mano di Dio
viene a svegliare e a risvegliare, viene a rialzare e ad inviare, a continuare,
sempre e comunque, nonostante le nostre mille contraddizioni e i nostri limiti.

Ma non è tutto. Quella mano non è neanche la mano che
manda con l’arroganza della superiorità, ma comprendendo la fatica e il dolore.
Essa è la mano che nutre, una prima volta e una seconda volta, e permette di
riprendere la via.

Anche per noi il deserto è evidente, evidenti i dolori
degli uomini e delle donne, le fatiche, le paure e le ingiustizie, ma quando
cercheremo il nostro albero sotto il quale stare all’ombra per evitare il
deserto, lì saremo incontrati da Dio, senza ira, solo con la sua mano, che
offrirà nutrimento.

E quando saremo incontrati, nella fatica, ascolteremo
la sua voce dirci: Elia, che fai qui? Allora risponderemo: ero in attesa che tu
mi chiamassi per nome, per essere ancora tuo servo, e tu per sempre mio
salvatore.

 

Alzati, mangia, perché troppo lungo per te è il
cammino.
C’è da ringraziare Dio
perché anche in questa cena, su questa mensa ci porta un pezzo di pane, forza
per il lungo cammino. Io sono il pane
disceso dal cielo, sono il pane della vostra vita.

Mi sento nascere da dentro
una domanda: noi di che cosa alimentiamo la nostra vita? Di che cosa nutriamo
anima e pensieri? Stiamo mangiando generosità, bellezza, profondità? O stiamo
nutrendoci di egoismi, intolleranze, miopie dello spirito, insensatezza del
vivere, paure di tutto? Se accogliamo in noi pensieri bassi, degradati questi
ci fanno come loro; se accogliamo pensieri di vangelo, di bellezza, essi ci
fanno uomini e donne della bellezza.

Se ci nutriamo di Cristo, egli ci abita
e ci trasforma in sé, dà forma al pensare, al sentire, all’amare. Se ci
nutriamo della buona notizia del vangelo, avremo in cuore buone notizie per chi
ci incontra. Angeli come per Elia.

Il verbo principale del
vangelo di oggi è: mangiare. Così semplice, quotidiano, vitale. Che indica
cento cose, ma la prima è che mangiare o no è questione di vita o di morte. Dio
è una questione vitale!

E poi che tu vivi di ciò che
mangi. Io chiamato a vivere di Dio. Non solo a diventare più buono, ma ad avere
Dio dentro, che mi trasforma nel cuore, nel corpo, nell’anima, mi trasforma in
lui. Vuol dire vivere davvero o solo sopravvivere.

Per capire oltre pensiamo a
quei momenti incantati in cui abbiamo osservato una mamma o un papà giocare con
il loro bambino piccolo, e ad un certo punto abbiamo sentito una frase
rivelatrice: io ti mangio!

E il bambino non ha paura,
ride! Capisce che è una dichiarazione d’amore che dice più o meno questo: tu mi fai vivere! La mamma dichiara: tu
alimenti la mia vita, e io voglio essere una sola cosa con te. Intima a te. Il
papà dice: non ci separeranno mai.

Così noi: Mangiare la vita di Cristo per vivere di
quella vita. Perché anche se è la madre a nutrire fisicamente il bambino,
in una dimensione più profonda è il bambino che fa vivere la madre. È l’amore
che fa vivere. L’amato diventa vita per
chi lo ama. Voglio mangiare ciò che mi mantiene in vita, colui che mi fa vivere,
il mio amore, Gesù disarmato amore, crocifisso amore, che vive donando.

Che cosa dona? Che vita
offre? Venuto a portare cielo nella terra, Dio nell’uomo, vita immensa in
questa vita piccola. Venuto per il perdono dei nostri peccati? No, troppo poco!
Molto di più del perdono è venuto a portare. È venuto a portare se stesso. E la
sua vita. Luminosa, buona, serena ed eterna.

 

 

PREGHIERA ALLA COMUNIONE

 

‘Basta, Signore, non ce la faccio più’.

L’ho detto, l’ho udito,

in molti giorni, in molte persone.

E tu hai risposto con un angelo,

una carezza, acqua e pane.

E con Gesù Cristo: “io sono il pane di vita”,

pane nel deserto, pane per il lungo cammino.

Ho un po’ di paura, io non sono degno, Signore.

Non venire, non nella mia casa, non è a posto.

Ma tu domandi solo che io spalanchi quell’uscio:

e ti insedi al centro della mia povera umanità

come un re sul trono.

Basterà una tua parola e io sarò guarito.

Lasciarmi amare, tu non domandi di più,

non mi domandi se ti voglio bene.

Ti basta che io mi lasci amare,

e portare da te.

E questo basterà perché tu riempia di sole

la mia povertà. Amen.