dal Messaggero Veneto del 18/06/2002

Sergio Tavano eccepisce anche sulla scelta della data: perché non ricordare San Paolino?
Un sistema di valori non è un sistema etnico


«Certe cose devono scaturire dal basso ed essere condotte con delicatezza. Una manovra giuntale che richiami alla memoria quella del Friuli über alles francamente spiacerebbe a troppi». Anche Sergio Tavano, storico e docente universitario isontino ha dubbi sul metodo più ancora che sui contenuti della festività regionale.

«Intendiamoci, proporre il patriarcato come momento unificante non mi pare una cattiva idea. Ma la data prescelta potrebbe tradirne una visione molto riduttiva. La fondazione statuale avviene il 3 aprile 1077 e il potere temporale dura soltanto 343 anni», dice. Però l’influenza culturale e religiosa, la giurisdizione ecclesiastica si estendono ben al di là dai confini politici e vanno dal IV secolo al 1751. Essendo cattoliche, quindi universali rispettano poi le diverse identità, le varie lingue. Vi si riconoscono così friulani, giuliani, sloveni, carinziani, cadorini, in un respiro sovranazionale, non portatore di un potere politico e di un preciso modello di tradizioni e idioma».

Quindi andrebbe indicata un’altra data, proprio per non equivocare sul reale significato della comune radice patriarchina. «Ragionando in quest’ottica il 3 aprile appare una forzatura, se non un abuso storico. Potrebbe andar meglio il 12 luglio, giorno che ricorda i santi Ermacora e Fortunato, da quest’anno festeggiati come patroni regionali, però non è un giorno del calendario scolastico. Altrimenti si potrebbe proporre l’11 gennaio, che solennizza Paolino d’Aquileia, un santo venerato da sloveni e friulani, del quale quest’anno ricorre il dodicesimo centenario», dice ancora Tavano.
Non è comunque la data in sé a rappresentare il vero problema, quanto piuttosto il messaggio, il significato che si vuole attribuire ai festeggiamenti. «Ridurre la portata del fenomeno aquileiese alla sua valenza politico territoriale sarebbe insomma un torto fatto alla storia, alle genti di queste terre, e in fondo anche allo stesso Patriarcato», osserva il professore. «Se ne possono invece recuperare gli elementi di coesione morale e il senso di appartenenza culturale, rispetto ai quali il dato linguistico era un mero accidens».

«Se vogliamo fare un paragone più vicino a noi, ma molto simile all’impostazione e al tipo di influenza che venne esercitato da Aquileia, potremmo guardare all’Austria asburgica», è la conclusione. «Franz Joseph diceva: ai miei popoli; non: ai miei sudditi. E la festa dell’Imperatore era un riconoscersi in un sistema di valori, non in un sistema etnico. Non c’era nessuna omologazione, nessuna rinuncia alle peculiarità del radicamento territoriale: ciascuno cantava l’inno nella propria lingua e vestiva i propri costumi. E questa è una cosa che non può non valere oggi: guardare a scelte identitarie nazionali che impongano un modello, non è un modo europeo di affrontare la realtà di queste terre».
L.San.
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