L’ AVARIZIA, EBBREZZA DELLA POTENZA PURA


L’avarizia è, insieme con l’orgoglio, il vizio più profondo dell’amor proprio.
L’avarizia si oppone alla cupidigia perché è avidità di risparmiare più che di acquistare.
Essa gode di ciò che possiede e non lo rischia per possedere di più.

L’avaro è un solitario la cui gioia è sempre segreta, perché non può né mostrarla, né parteciparla senza mettere in pericolo la propria ricchezza.

Odia i suoi parenti e i suoi eredi, che pensa abbiano su di lui qualche diritto. Egli abbraccia con uno sguardo solo tutte le possibilita’ che l’oro rappresenta senza realizzarne alcuna, nemmeno nell’immaginazione.

Non immagina nemmeno, come si crede, tutti i beni che potrebbe procurarsi e che per lui sono al contrario i più grandi di tutti i mali poiché distruggono la sola cosa ch’egli possa amare.

Cercando di rappresentarseli, egli già scinderebbe e corromperebbe il piacere che gli dà la pura potenza che crede di conservare su di essi.

L’avarizia è un vizio della vecchiaia che suppone una lunga esperienza, che cerca di accumulare i mezzi per darsi tutti i godimenti che potrebbero riempirla, e che disprezza questi stessi godimenti.

E’ un’ebbrezza della potenza di cui ben si vede che può estendersi su tutte le cose, ma di cui non si fa uso alcuno per paura di diminuirla o di annientarla.
Si può ben dire che l’avaro gode di una pura possibilità, ma si tratta di una possibilità reale e non immaginaria, poiché l’oro è li’ che la rappresenta; gode ancor meno a sentire che potrebbe convertirla in un oggetto di godimento sensibile, che a sapere che sempre si rifiuterà di farlo.

L’avarizia è un vizio sottile, un vizio dello spirito e non della carne. Forse è il vizio dello spirito per eccellenza, poiché essa è il piacere che ci dà la possibilità indeterminata di tutti i godimenti, possibilità che non può essere che pensiero e che per noi vale più di ogni godimento provato.

L’avarizia è inseparabile dal pensiero di una potenza pura capace di crescere indefinitamente e che deve essere conservata allo stato di potenza perché il suo esercizio non la diminuisca.

Il danaro raccoglie in sé contemporaneamente la soddisfazione ideale di tutti i desideri: ma il desiderio del danaro respinge la soddisfazione di ogni desiderio particolare, ne respinge persino l’immagine. E’ il desiderio di poterli soddisfare, ma senza soddisfarli mai.

L’avarizia è dunque la sola passione che non si lasci mai imprigionare dal suo oggetto, non solo, come si dice, perché il danaro che non è dispensato può accumularsi senza posa, ma anche perché il danaro rappresenta contemporaneamente tutti i beni senza che io sia tuttavia obbligato ad applicare il mio pensiero ad alcuno d’essi né ad arrestano ai limiti stessi del godimento.

L’avaro è, fra tutti gli uomini, quello che ha meno bisogno di danaro: è un asceta volontario. Ama la presenza del danaro e ne detesta l’uso.
E’ il più assurdo degli esseri; ma è anche quello che si dà le gioie più disinteressate, gioie rigorosamente prive di contenuto. Il desiderio di danaro gli ha permesso di trionfare su tutti gli altri suoi desideri. Sa che il danaro che permette di soddisfarli ci mette al di sopra di essi, che la spesa, che lo distrugge, ci pone di nuovo sotto il loro giogo.

La gioia dell’avaro racchiude dunque una contraddizione, che però rende questa gioia singolarmente acuta; infatti egli può tutto permettersi e non si permette nulla; tutto possiede e non possiede nulla.
Ha il potere di trasformare un possesso virtuale in un possesso àttuale, ma si diletta di non usare mai un tale potere.
Da qui quest’attrazione dell’oro, che si sostituisce così presto all’attrazione del piacere, che lo costringe a sopportare tante pene, che diventa a poco a poco il nemico del piacere e finisce sempre per fuggirlo dopo avere avuto l’apparenza di perseguirlo.

C’è nella ricerca dell’oro del Reno il segno di una perversità dello spirito che si accanisce nel perseguire i beni della terra, che ad essi subordina ogni suo sforzo, e che tuttavia non li possederà mai e non possederà mai altro che lo sforzo stesso che fa per possederli.

(L.Lavelle, L’errore di Narciso, p.96)

Trovato da Internet :

L’avarizia è un sentimento di chiusura dell’io. Nelle parabole evangeliche è il sentimento dell’eredità. Nella Parabola del figliol prodigo”, il figlio che dissipa la sua eredità, mostra comunque di saper sperimentare la vita. E sono proprio le esigenze della vita a portarlo indietro dal padre. Ma se avesse conservato gelosamente i suoi soldi, non avrebbe l’esigenza di tornare mai più. E nella “Parabola dei talenti” Gesù arriva all’affermazione paradossale che: “a chi più ha, più sarà dato”, per sottolineare che si devono mettere a frutto i doni ricevuti. L’avaro invece gode solo del possesso esclusivo delle proprie ricchezze. Esse diventano come un suo secondo corpo, come lo scrigno pieno di scudi d’oro di Arpagone ne “L’avaro” di Molière. Lo scrigno è la vita stessa di Arpagone. E per riottenere lo scrigno che gli viene rubato egli è disposto a rinunciare a tutto il resto, alla passione amorosa e agli affari usurai.

(da “L’avaro” di Molière)
L’AVARO: Eccoli! Buongiorno figli miei! Dormito bene? Che suoni belli! (bacia i suoi soldi) Quanto vi amo!

Nell’immagine estrema e tragica, che ne dà Molière, l’avarizia è una fissazione che nega la vita. All’avarizia infatti non si contrappone solo la generosità, ma anche il coraggio del rischio. In ciò l’avarizia è il simbolo delle società povere. L’immagine delle società opulente, elaborata nella tradizione popolare classica da Adam Smith, ad esempio, dà grande importanza alle motivazioni umane, che si riversano positivamente sugli altri, le motivazioni altruistiche, ma anche l’interesse economico, il cui perseguimento permette di realizzare prosperità per la società intera. Ma è realistica questa prospettiva nelle società attuali? E cosa distingue oggi gli avari dai prodighi?

BETTAZZI: Direi che questa scheda ci introduce in modo egregio al tema. Se l’avarizia è il cercare di mantenere quello che si ha, il corrispettivo è l’avidità, cercare di avere sempre di più. Ed è quello che oggi forse noi dobbiamo soprattutto segnalare, sia sul piano individuale, di chi cerca d’avere sempre di più, sia sul piano sociale. Già nel 1980 il famoso Rapporto Smith dell’O.N.U., segnalava – eravamo in piena Guerra Fredda – che il pericolo più grande del mondo non era tanto il contrasto tra Est e Ovest, quanto la divergenza tra il Nord e il Sud, il Nord, cioè la parte più ricca del mondo, che diventa sempre più ricca e il Sud che diventa sempre più povero. Ecco è questa avidità, che allora viene anticipata dall’ultimo pezzo della scheda, anche se lì sembra farlo vedere su un piano ottimistico, che basta andare avanti e tutto si sviluppa per il bene, mentre ci sono tante difficoltà. Ma adesso vorrei sentire Voi.

STUDENTESSA: Come Lei può vedere, abbiamo scelto una cassaforte come simbolo dell’avarizia. Volevo appunto chiederLe cosa ne pensa e quale oggetto ha scelto Lei e perché.

BETTAZZI: La cassaforte risponde all’avarizia di chi vuole accumulare e gode di avere accumulato tanto. Io ho l’impressione che sia, più che di società primitive, di psicologie primitive. Capita molte volte a persone sole, qualche volta capita perfino ai preti, ecco, di accumulare per il gusto di accumulare. Dico: almeno li spendessero per il bene. E secondo me è una forma di malattia, una patologia. Mentre, viceversa, è questo desiderio, questa ambizione, che hanno gruppi o popoli, addirittura nazioni, ricche di diventare sempre più ricche, per dominare quelle sempre più povere. Accennavo a questa divaricazione crescente. Purtroppo noi stiamo assistendo a una parte del mondo, al 20% dell’umanità che gode dell’80% delle risorse, e, godendo di tante risorse, di tante forze, di tante armi, può governare, se non addirittura schiacciare, l’80°% dell’umanità, che invece può usufruire soltanto del 20%. È per questo che io ho scelto invece una testimonianza che riflette più questa concezione, per cui la parte ricca del mondo, cerca di etichettare la parte povera. È stato detto: “Se io do da mangiare a un povero sono un santo, ma se io mi chiedo perché quello è povero e chiedo che allora si modifichi il mondo, allora divento un comunista, divento un rivoluzionario e un sovvertitore”. Cioè rendersi conto delle esigenze dell’umanità, della parte povera del mondo, di fronte alla quale la parte ricca cerca di dominare e di sfruttarla. Ecco questo credo che sia il grande problema che si apre a una serie di aspetti. Si tratta del debito mondiale che soffoca i paesi poveri, che è dato dai paesi ricchi, e si tratta della guida del mondo. Vedete come le decisioni dell’O.N.U., che sarebbe l’insieme delle nazioni entro le quali tutti quanti hanno la loro voce, vengono metodicamente sovvertite dal gruppo delle nazioni più potenti, più ricche, per esempio dalla N.A.T.O. Io credo che sia questo il grande problema: non tanto della avarizia, ma della avidità nel mondo di oggi.

STUDENTESSA: L’esasperazione di questo sentimento può generare l’autodistruzione?

BETTAZZI: Sul piano individuale certamente, se uno si fissa sopra questo bene materiale, perché l’essere umano è fatto per i grandi valori, i grandi valori assoluti, per Dio, ma anche per gli ideali della bontà, della giustizia, della bellezza. Ed è fatto per gli altri, perché l’essere individuale, la persona umana, si realizza nella misura in cui si mette in rapporto con l’altro. Perfino su un piano religioso, quando Dio ha detto: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”, non aveva fatto Adamo. La Bibbia dice: “Ha fatto maschio e femmina li fece”, cioè la manifestazione di Dio è l’essere umano in rapporto a un altro. L’avarizia invece, non soltanto lo isola dai grandi valori, ma chiude l’uomo in se stesso, e per questo Dio dice: ‘”Beati i poveri”, non i miserabili, ma quelli che non si riconoscono ricchi di fronte a Dio e che quindi subordinano l’uso dei beni materiali ai grandi valori di cui Dio è creatore e testimone. E si chiude di fronte agli altri, direi immiserisce la sua vita, perché, se l’essere umano è fatto per il rapporto con gli altri, nella misura in cui mi chiudo, impoverisco me stesso. E questo vale anche sul piano delle nazioni. Le nazioni che vogliono arricchirsi e mantenere la loro ricchezza finiscono con l’isolarsi dalle altre, con l’essere malviste dalle altre, col rendere le altre sempre più dipendenti, ma col provocare in queste altre le rivoluzioni. Non è un caso che l’eccesso della prevalenza della nobiltà ha provocato la reazione della Rivoluzione Francese, che l’eccesso di dominio della borghesia ha provocato la Rivoluzione Russa. Cioè provocano. E in fondo io credo che anche questo assedio che noi stiamo patendo dai popoli poveri, da cui noi ci difendiamo con le armi, in Puglia, per esempio, o con le leggi, sia in fondo l’anticipo di questa rivoluzione che i poveri del mondo, l’80% dei poveri del mondo fanno, per riuscire a partecipare del benessere delle nazioni più ricche.

STUDENTESSA: Vorrei sapere se è possibile rapportare l’avarizia al masochismo.

BETTAZZI: In un certo senso sì, se il masochismo è ripiegarsi su di sé; soltanto che il masochismo è godere della propria sofferenza e del proprio vittimismo, mentre l’avarizia gode del benessere che ritiene d’avere. Non si rende conto che in questo modo impoverisce se stessa. Certo, nella misura in cui si rendesse conto che così impoverisce se stessa allora sarebbe in qualche modo masochista. Forse c’è un altro contributo filmato, che può aiutarci anche per questa riflessione.

SUOCERO: Non fingere con me! So che non mi hai mai potuto sopportare.
NUORA: La conosco soltanto come suocero.
SUOCERO: Perché ritorni a casa tua?
NUORA: Un impulso, e niente altro.
SUOCERO: Evald è mio figlio, Marianne.
NUORA: Sì, questo è evidente.
SUOCERO: Evald e io siamo simili e abbiamo i nostri principi.
NUORA: Come se non lo sapessi!
SUOCERO: Quel prestito, ad esempio …
NUORA: So esattamente quello che vuol dire: doveva restituirlo appena avuta la docenza. È una questione di onore saldare debiti alla scadenza, eccetera, eccetera.
SUOCERO: Gli impegni sono impegni.
NUORA: Così gli tocca ammazzarsi di lavoro e non abbiamo mai a disposizione un minuto per noi soli.
SUOCERO: Hai le tue rendite, se non sbaglio!
NUORA: Senza contare che lei è ricco sfondato e non ha bisogno di quel denaro.
SUOCERO: Ah, gli impegni sono impegni, cara Marianne! Evald mi capisce e proprio per questo mi rispetta.
NUORA: Sì, certo, ma la odia anche.

BETTAZZI: Questo brano del film di Bergman, che ai nostri tempi era un regista molto famoso e molto grande, che amava scavare nella psicologia della persona, ci richiama proprio a questo inaridimento che l’avarizia fa di fronte ai sentimenti umani, di fronte al rapporto con le persone. È talmente importante mantenere i propri soldi, che se anche si distrugge la famiglia del figlio e i rapporti del figlio, questo non importa più.

STUDENTESSA: Nel primo filmato è stato detto che l’avarizia è il simbolo dei paesi poveri. Non sono per niente d’accordo, perché l’avarizia è il possesso e la personificazione del denaro, mentre i paesi poveri quasi non lo conoscono il denaro e possono, secondo me, essere più classificati come parsimoniosi, perché riflettono su come investirlo. Lei che ne pensa?

BETTAZZI: Non posso dire che sono pienamente d’accordo con te. Ma mi sembra che ci sia molto di vero in quello che hai detto, in quanto è vero che nei paesi poveri ci può essere quello che, avendo un po’ di soldi, sente che questa sua ricchezza lo rende superiore a tutti gli altri. Ma direi questo può valere anche nei paesi ricchi, soprattutto per le persone individualmente. Oggi forse non sono tanto i soldi, come era nel filmato. Oggi avere il conto in banca poter andare nelle classifiche mondiali come il più ricco del mondo, il più ricco dell’Italia, fanno la gara per essere i più ricchi, ma è una questione non tanto di attaccamento al denaro, quanto di prestigio e di potere nel mondo. Ecco è in questo senso. Avere tanti soldi, essere il più ricco d’Italia, in qualche modo avere più potere, più prestigio, questo vale allora anche per le nazioni. Essere più ricche, essere più potenti, così tutte le altre sono obbligate a difendere. La Borsa della mia nazione è quella che, di punto in bianco, può cambiare l’andamento finanziario del mondo. Ecco, questo allora diventa forse più ancora che avarizia, tra i vizi capitali sarebbe superbia, ecco, presunzione o ricerca di potere. Ma è vero, è discutibile quell’affermazione.

STUDENTESSA: Secondo Lei l’avaro è una persona immatura? Cioè, mi spiego meglio: secondo me, l’avarizia viene da un retaggio primitivo dell’uomo, cioè quello dell’accumulare quanto più cose possibili per sopravvivere. Infatti, i bambini si comportano un po’ così, gli adulti, da persone mature, non dovrebbero.

BETTAZZI: È molto giusto. Lo intravedevo, ma me lo dici proprio molto chiaramente: cioè più che essere delle società povere, è delle persone povere. Ecco, proprio è un rimanere ancora bambini. In qualche modo il bambino, per sua natura, fa tutto per se, è egotista dicono. E se uno da grande rimane egoista, è qualche cosa che ancora lo lega alla sua infanzia, proprio perché il crescere è invece renderci conto che si è fatti per essere con gli altri. Non per niente, quando si arriva all’età matura, uno si fidanza e si sposa. Capisce che per la sua vita, salvo che uno non abbia delle motivazioni ideali, o religiose od altro, capisce che l’importante è essere in rapporto con gli altri. Quindi è vero che è immaturità personale!

STUDENTESSA: Prima ha detto che l’avarizia può essere considerata una vera e propria malattia, una patologia. Secondo Lei c’è qualche modo per poterla curare?

BETTAZZI: Ma io credo che dovrebbero essere le persone vicine all’avaro, che dovrebbero far capire come in fondo la prima vittima dell’avarizia, più ancora che essere gli altri, che non si possono aiutare, è lo stesso avaro. Forse anche delle motivazioni religiose, anche se questo dovrebbe escludere, per esempio, che ci fossero dei preti avari. Ce ne sono stati in passato, possono esserci. Ecco, in questo senso, dico che è un po’ una malattia e come in tutte le malattie di carattere psicologico, sono le persone che vogliono bene, che devono aiutare, manifestando la contraddittorietà della situazione, i vantaggi che ci sarebbero invece a rinunciare a questo attaccamento alle proprie cose, per rendere il danaro come deve essere, non un idolo. Nella Santa Scrittura, San Paolo dice che l’avarizia è un’idolatria, perché uno fa del danaro l’idolo, cioè la cosa più grande a cui si subordina tutto il resto. E il far ragionare, il mostrare soprattutto con molto affetto e cercare di condurre verso una prospettiva più ampia, credo questo è il modo con cui si dovrebbe curare questa specie di malattia.

STUDENTESSA: L’avarizia è legata solamente alla materia oppure può essere un sentimento legato anche all’accumulo di sentimenti. Una persona può essere avara anche dell’amore degli altri?

BETTAZZI: Si tratta di vedere. Specificamente, quando si parla d’avarizia si intende il rapporto con i beni materiali, sia con i beni individuali, sia con i beni di carattere più vasto, ma sempre beni materiali. Una nazione, per esempio, è avara se cerca di mantenere tutto quello che essa ha a proprio vantaggio, senza farne partecipi gli altri. Una concezione che è sottesa all’avarizia è quella della proprietà. Uno pensa che, se una cosa è mia ne posso fare quello che voglio. In realtà la proprietà non è il dato originario. Il dato originario è, come noi diciamo con un termine un po’ tecnico, la destinazione universale dei beni. La proprietà è sempre in funzione della destinazione universale dei beni. Tanto è vero che, se la proprietà contrasta con il bene pubblico, prevale il bene pubblico. Si espropriano dei terreni per fare una strada, per esempio. Nel nostro Codice Civile è previsto che se uno si appropria di qualche cosa da mangiare e si prova che la sua famiglia moriva di fame, non lo si può penalizzare perché lui ha diritto alla vita umana. Io me lo chiedo sempre, se pensiamo che nel mondo ogni anno muoiono 30-35 milioni di esseri umani per la fame o per le conseguenze della fame. Ecco, se questo non sia in qualche modo un richiamo alla responsabilità dei popoli più ricchi e più benestanti, che invece di chiudersi in loro stessi, con una forma di avarizia nazionale dovrebbero invece aprirsi alla solidarietà per i popoli più poveri.

STUDENTESSA: Dante colloca in uno stesso cerchio gli avari e i prodighi. Io penso che i prodighi non possono essere considerati dei peccatori, ma diciamo delle persone che hanno delle debolezze. Lei cosa ne pensa?

BETTAZZI: Dante era sempre in questa concezione molto individualistica, dalla quale noi stiamo cercando d’allargarci a una considerazione sociale, ed è vero che sono sullo stesso piano, perché tutti e due non sanno usare bene dei beni materiali, l’uno perché li accumula senza servirsene, l’altro perché, invece di metterli al servizio degli altri, li butta via. Ecco credo che a sostegno della concezione cui stiamo arrivando, c’è un testo di un caro amico, che propone, anche contro i nostri testi del passato, che davano un valore assoluto alla proprietà e dice: “Secondo i principi della parola di Dio, non si può cercare di arricchire ad ogni costo” proprio perché i beni materiali sono al servizio dell’umanità. E continua: “se hai in più, ce l’hai per dare”. Allora, in questo caso, anche la prodigalità da una parte è buttare via, non servirsene per il bene degli altri, sciuparli, così come l’avarizia è tenerli e non servirsene per il bene degli altri. Quindi c’è un elemento comune: il cattivo uso dei beni materiali.

STUDENTESSA: L’avarizia si può considerare anche una sorta di rifiuto al distacco dalla vita?

BETTAZZI: È un attaccamento tale! Uno finisce col persuadersi che la sua vita è legata a questi beni, uno comincia a raccogliere per: “Quando sarò vecchio”. E poi rimane preso da questa specie di volano. Ci sono dei mendicanti che sono morti con centinaia di milioni. Hanno cominciato col dire: “Metto da parte, così ne ho” e ad un certo punto non hanno più considerato la finalità, ma è diventata lo diceva in qualche modo una malattia. L’attaccamento alla vita è iniziale, ma poi viene trasferito: l’attaccamento alla vita e ai beni materiali, poi finisce che ci si attacca ai beni materiali in quanto tali.

STUDENTESSA: Se Lei dovesse fare una classifica dei valori più importanti nella vita, a che posto collocherebbe il denaro?

BETTAZZI: Lo collocherei tra i mezzi. Non è un fine. È chiaro che metto come primo fine il valore più alto e quindi anche Dio. Il secondo fine sono gli altri, il rapporto con gli altri, l’amore per gli altri, non il chiudersi ma l’aprirsi. Essendo noi viventi nel mondo materiale tutti i beni materiali devono essere subordinati. Quindi è al terzo posto come subordine ai beni, ai beni principali, ai valori ideali: Dio, i valori dell’arte, della bontà, della giustizia, della solidarietà e il rapporto con gli altri. Verrebbe da dire che il denaro come tutte le cose materiali, in un certo senso sono neutrali. Valgono nella misura in cui sono utilizzati per raggiungere i fini fondamentali dell’essere umano.

STUDENTESSA: Pensa che l’avarizia possa scaturire dalla mancanza di affetto, di amore e quindi portare l’avaro a considerare le sue ricchezze come uno strumento di prevaricazione, per mostrarsi superiore?

BETTAZZI: Può darsi che uno che non ha molto affetto intorno a sé, finisca col concentrare su se stesso. Dice: “Ma allora è per garantire l’avvenire di se stesso”. E allora comincia ad accumulare. Poi c’è questa forma di transfert, per cui il se stesso si identifica in qualche modo col danaro e continua a raccogliere anche quando non gli servirebbe più. È per questo che dicevo prima che uno dei modi per cercare di guarire questa malattia è l’affetto, la premura, la cura delle persone vicine, che lo aiutano a capire, che lo riaprono dalla chiusura dell’avarizia all’apertura dell’attenzione verso gli altri.

STUDENTESSA: Da che cosa nasce l’avarizia?

BETTAZZI: Dall’affermazione di sé, dalla ricerca di sé. È naturale, guai se non ci fosse. Uno pensa a se stesso nei confronti dell’avvenire e allora comincia ad accumulare e, avendo tanto, ha questa sicurezza nei confronti degli altri. Quindi è una esasperazione, direi, dell’individualismo, dell’amore di se stesso, senza considerare che noi stessi ci realizziamo nella misura in cui ci mettiamo con gli altri e in cui ci mettiamo in rapporto coi valori più grandi. È una deformazione della ricerca di sé, dell’amore a se stesso.

STUDENTESSA: L’avarizia può essere considerata il presupposto della solitudine?

BETTAZZI: Forse è la solitudine un po’ il presupposto dell’avarizia. Se io non ho amore, allora mi butto su questo qui e a sua volta, direi, quando io mi butto su questo, finisce che non solo psicologicamente, ma anche gli altri mi abbandonano. E quindi può portare davvero alla solitudine. E questo io lo richiamo sempre ai valori anche sociali, cioè una nazione che ricerchi troppo se stessa, il potere, la ricchezza, finisce con l’essere mal vista dagli altri. Non faccio esempi che possono essere facili, ma facciamo degli esempi antichi: i Romani. Ecco i Romani erano malvisti da tutti. Guardate anche nella Bibbia. Perché? Perché erano talmente forti, potenti e ricchi e accumulavano e allora finivano con l’essere soli. Io credo che sia anche questo molto importante anche per la crescita di un rapporto giusto, armonico, solidale tra le nazioni. Ecco, l’eccessiva ricerca, l’eccessiva avarizia o avidità delle nazioni finisce qualche volta con l’isolarle, col renderle antipatiche alle altre.

STUDENTESSA: Secondo Lei l’avarizia non può nascere anche da un sentimento di insicurezza, anche da un moto interiore, perché, se a me manca tutto – mancano gli amici, mancano gli affetti – mi ripiego sul denaro perché è l’unica cosa che ho e non voglio perderla.

BETTAZZI: Sì, è collegato col fatto della solitudine. Una persona sola che cerca la propria garanzia. Ma poi, quando ha cominciato così, finisce che quella che era una garanzia diventa invece la vera finalità. Come per le nazioni, uno comincia a dire: “Devo essere sicuro”, quando ero giovane si parlava dell’autarchia, cioè l’Italia deve fare da sola, quindi non deve prendere dagli altri. Era un modo per far sviluppare. Ma questo finiva con l’isolarla dalle altre nazioni. Allora poi è venuta la guerra e il resto. C’è questo legame: si parte dalla sicurezza che si vuole avere e la si mette nelle cose materiali e questo rende più insicuri, perché ci si isola dagli altri.

STUDENTESSA: La Chiesa come considera il peccato di avarizia?

BETTAZZI: Lo considera come un peccato perché è la negazione della solidarietà. Quando si è molto avari non si aiuta gli altri e non si partecipa. Per questo Vi dicevo con quanto rammarico noi vediamo qualche volta che anche qualche sacerdote è avaro. Muore e lascia tanti soldi. Per fortuna qualche volta lo lasciano al Cottolengo e allora andrà ai poveri. Ma era molto meglio se li lasciava da vivo, perché così manifestava questo distacco dalla sicurezza di sé, per essere in rapporto con gli altri. Io credo che l’avarizia sia soprattutto inaridimento della carità, inaridimento della solidarietà verso gli altri.

STUDENTESSA: Ne L’avaro di Molière, Arpagone, che è il personaggio avaro, viene ironizzato, quindi viene anche compatito oltre che ovviamente condannato per il suo vizio. Lei personalmente condanna o biasima l’avarizia, nel senso che la persona va comunque compatita?

BETTAZZI: La commisero, perché l’avaro è un poveraccio. Però è chiaro che lo condanno. Bisognerebbe che l’insieme facesse capire che è una cosa sbagliata. Allora, mentre sul piano oggettivo, si condanna, su un piano soggettivo si commisera, ma una commiserazione che non vuol dire lasciarlo così. Proprio perché lo commisero cerco d’aiutarlo come posso a uscire da questo stato di negazione.

STUDENTESSA: L’avarizia può provocare alla persona avara tormento, infelicità, insicurezza?

BETTAZZI: Gli avari provano gioia ad aver tante cose. Ma poi, per poco che guardano, si rendono conto che questo li isola dagli altri, che gli altri li guardano male, che gli altri li odiano, come diceva il primo filmato. Purtroppo qualche volta sono talmente immersi in questa soddisfazione, da non arrivare nemmeno a percepire questa esigenza di solidarietà. Ecco, quindi c’è l’insieme di queste cose e – in questo io apro sempre sul piano sociale – anche le nazioni grandi, ricche e potenti, alle volte sono talmente ripiegate su sé stesse, da non rendersi conto di come stanno impoverendo il resto del mondo e come il resto del mondo le guarda con antipatia e con odio.

STUDENTE: Come vede la sete di potere che ha avuto la nostra Chiesa nei secoli addietro e il potere che tuttora esercita sulle nazioni del mondo?

BETTAZZI: Il potere temporale è partito dal fatto che in una Italia per così dire alla ventura, la Chiesa per secoli ha rappresentato un punto di riferimento, è stata un fattore di equilibrio all’interno della società. E poi, in fondo, si sono accumulati beni proprio perché in genere la gente pensa che i soldi dati alla Chiesa, bene o male, vengono utilizzati per i poveri. Sono nati gli ospedali per tutti, sono nate le scuole per tutti. Li danno a Madre Teresa, li danno al Cottolengo. Certo al di dentro siamo uomini anche noi. Quindi ci può essere – ci sono stati e magari speriamo che non ci siano più – quelli che lo utilizzano per il loro interesse personale ma direi che, dopo la caduta del potere temporale, si debba parlare di prestigio più che di un potere vero e proprio esercitato dalla Chiesa. si tratta una forma di utilizzo del proprio prestigio per metterlo per gran parte al servizio. Vediamo anche adesso, nella tragedia della ex Jugoslavia, quanti aiuti vengono dati, perché si vede come la Chiesa corre personalmente al servizio dei poveri.

STUDENTE: Sappiamo che l’avarizia è sempre esistita, ma in quale periodo ha trovato più spazio, è stata più diffusa?

BETTAZZI: Oggi più che l’avarizia, è la ricerca del profitto o del prestigio, per potere contare anche politicamente. Perché, se io sono il più ricco di mondo, d’Italia, posso fare un partito, tutti mi guardano con rispetto. Quindi io credo che, siccome sono quei peccati, diciamo, che sono inerenti all’uomo un po’ rovinato dal peccato originale, ci saranno sempre. Cambiano di forma. Io credo che sia difficile dire dove più dove meno, proprio anche perché in altri tempi avevano un’altra fisionomia, oggi ce ne hanno piuttosto una moderna, domani sarà magari l’avarizia dell’Internet, va a capire che cosa sarà domani. L’avarizia delle Borse, di chi gioca in Borsa e attraverso questa vuole arrivare a dominare e schiacciare gli altri. Quindi io credo che dobbiamo metterci in guardia per essere attenti a non cadere, secondo i nostri tempi, nell’avarizia o nell’avidità, come oggi domina.

STUDENTESSA: Non crede che i cosiddetti popoli, che noi abbiamo chiamato avari, quindi anche popoli sviluppati, abbiano usato proprio la carità come strumento per far rimanere i popoli, che ora sono sottosviluppati, a una forma primordiale. Infatti noi sappiamo che fino a poco tempo fa, gli aiuti ai paesi sottosviluppati erano concepiti come carità, non per costruire strutture e dare lavoro. Quindi in questo caso la carità anche cristiana, ha aiutato i popoli avari, chiamiamoli così, a tenere sotto controllo i popoli meno sviluppati.

BETTAZZI: Qualche volta può essere capitato, ma devo dire che nella storia c’è sempre stata questa spinta a una solidarietà fatta di aiuti al progresso. Voi sarete a conoscenza delle missioni che i Gesuiti avevano fatto in America Latina. Dove avevano organizzato delle società comunitarie dove c’erano dei villaggi e insegnavano agli Indios a gestirsi da soli. Chi è che le ha soppresse? Le Nazioni Europee perché vedevano che così gli Indios imparavano, crescevano secondo una loro consapevolezza e gli europei perdevano il loro dominio. Hanno fatto perfino sospendere l’ordine dei Gesuiti pur di soffocare queste esperienze. C’è sempre stata la carità come aiuto, perché se uno muore oggi non posso dire: “Guarda ho un progetto fra sei mesi, vedrai com’è”. Però non è nemmeno vera carità se fornisco da mangiare oggi e non mi impegno fra sei mesi a farlo lavorare. Direi che c’è sempre stata, bene o male, ma c’è sempre stata e con questo sforzo, più o meno, a secondo dei limiti degli uomini e dei tempi. Eh!

STUDENTE: Abbiamo voluto attraverso Internet richiamare la figura dell’avaro di Molière, già presente nella scheda. Vorrei sapere da Lei se approva questa scelta, e se, secondo Lei, Arpagone è un personaggio che deve suscitare ilarità o pietà.

BETTAZZI: Credo che Molière sia stato interessante come punto di partenza, ma troverei limitante concentrarsi soltanto sull’avarizia individuale, mentre credo che oggi il problema più grande sia l’avarizia e l’avidità dei popoli più sviluppati che impediscono, proprio al servizio del loro sviluppo, ai popoli più poveri di realizzarsi, che con questo debito pubblico che hanno imposto vendendo armi che non sono produttive, oggi obbligano questi paesi poveri a pagare gli interessi, facendo delle grosse rinunce e potendo orientare così anche le loro democrazie o i loro piani sociali. Ecco, io credo che dall’avarizia individuale oggi dobbiamo soprattutto passare alla considerazione dell’avidità sociale, per una maggiore armonia dei popoli.
————————————————————————