Quando una persona soffre per il timore di sbagliare, cosa si può fare per aiutarla a superare le sue paure ma soprattutto per gestire gli errori?

Va premesso che queste sono persone con bassa stima dl se stesse, nel senso che gli errori sono vissuti come
un’ulteriore conferma della propria inadeguatezza e mancanza di valore, dovendo rispondere ad un modello ideale irraggiungibile di perfezione.

L’autostima non ha niente a che vedere con la perfezione, nè significa evitare gli errori: significa accettarsi incondizionatamente con difetti e limiti, sia propri che altrui.
Un consiglio a coloro che hanno qui sta fobia, è quello di ridimensionare gli errori: interpretarli cioè in maniera nuova, diversa, in modo da limitare la loro minacciosità e collocarli come eventi naturali e persino validi della propria vita.

Questa nuova prospettiva permette di apprendere dagli errori e di andare oltre. Gli errori sono una funzione della crescita e della consapevolezza, in quanto ri quisito indispensabile per qualsiasi processo di apprendimento: è raro e difficile imparare qualcosa senza commetterne affatto.

Ogni errore ci indica che cosa bisogna correggere e ci porta sempre più vicino al comportamento più efficace.
Chi non rischia per paura di fallire ha scarse opportunità di Imparare cose nuove e crescere: gli errori non sono uno strumento di misurazione dell’intelligenza e del proprio valore, sono semplicemente dei passi verso un obiettivo.

A volte siamo talmente occupati a difenderci dagli attacchi della nostra autocritica (Super-lo) che perdiamo l’opportunità di ascoltare quello che gli errori hanno da dirci.
Chi invece li considera come un un insegnamento o un avvertimento può trarne beneficio.

La paura di commettere errori inibisce la libera espressione di sé. Se non permettiamo a noi stessi di sbagliare nell’esprimerci, non ci sentiremo mai sicuri e liberi di esprimere nemmeno le cose giuste.

La paura di sbagliare porta all’isolamento ed impedisce la spontaneitè, perché costringe a vigilare costantemente sulle proprie espressioni ed azioni e rende timorosi e ciechi di fronte ad ogni opportunità che offre la vita.

La posizione più funzionale è quella di non stupirci per un certo numero di gaffes sociali, errori sul lavoro, decisioni inadeguate, opportunità mancate e relazioni interpersonali non riuscite.

Le categorie di errori più comuni sono: errori di fatto, insuccesso nel raggiungere un obiettivo prefissato, sforzi andati a vuoto, errori di valutazione, dimenticanze, esplosioni emotive inappropriate, temporeggiamenti, impazienza, ecc.
Ma nel momento in cui vengono definiti tali, gli errori appartengono al passato e non più al presente.

«Un errore è una qualsiasi azione che, dopo averla commessa, avremmo desiderato aver fatto diversamente. La parola chiave è “dopo”. Nel momento esatto in cui ha luogo l’azione, ci si comporta nel modo che si considera più opportuno; è l’interpretazione successiva che, tenendo conto dell’esito, trasforma l’azione in errore. lì termine “errore”, dunque, è un’etichetta che si applica in retrospettiva.

Bisogna aver vissuto a lungo prima di accettare l’imperfezione. In realtà, vivere, per tutti,, è l’equivalente dell’essere imperfetti. E crescere, avanzare, fare degli errori e superare delle prove; è saperne trarre degli insegnamenti e creare a propria misura le risposte.

Vivere significa non essere mai arrivati, non avere mai la risposta finale, nè quella giusta. Imparare, imparare e imparare sempre. Essere umili, vicini alle proprie origini, al proprio humus, ovvero alla terra, come è indicato dalla parola umiltà.

Può dispiacerci il fatto di non giungere mai al traguardo, di non essere perfetti, realizzati. Se non accettiamo ciò che siamo semplicemente, ci ritroveremo come in una gara senza fine, ossessionati dal dover dare dimostrazioni di eccellenza e di perfezionismo: è questo il complesso dell’olimpionico, di chi si sente in obbligo di essere il migliore, colui al quale non si può rimproverare nulla, di essere il più bello, il più buono, quello senza macchia e senza errori.

Siamo vincenti o perdenti, non esistono mezzi termini. Ci vediamo perpetuamente giudicati, apprezzati per una performance esteriore, una superprestazione, sulla base di criteri parziali e superficiali. Tutto ciò si riferisce unicamente a quello che appare dl noi, e non riguarda mai la fonte, la profondità, la totalità di quello che siamo.

Mi ha sempre colpito una serie di interviste ad anziani e malati terminali letta qualche tempo fa, dove non si riferiva che le persone si rammaricavano per le cose che hanno fatto, ma piuttosto si parlavano di cose che ci si rammaricava di non aver fatto, come per esempio: «La prossima volta oserei commettere più errori… Avrei forse più guai effettivi ma meno guai immaginari…».

Il più grosso errore che può fare chi ha paura di commettere errori, è quello di non fare esperienze nuove.
Una volta ho conosciuto un’assistente sociale la quale invitava tutti quelli che si lamentavano dei propri fallimenti a leggere un poster che teneva appeso nel suo ufficio:
«Fallito in commercio 1832;
sconfitto per la Camera dei deputati 1832,
nuovamente fallito in commercio 1832;
eletto all’Assemblea 1834;
morta la fidanzata 1835;
esaurimento nervoso 1836;
sconfitto come presidente della Camera dei deputati 1838; sconfitto come membro dell’Assemblea elettorale 1840; sconfitto per il Congresso 1843;
sconfitto per il Congresso 1846;
sconfitto per il Congresso 1848;
sconfitto per il Senato 1855;
sconfitto come vicepresidente 1856;
sconfitto per il Senato 1858;
eletto presidente degli Stati Uniti d’America 1860.

Abramo Lincoln.

(da un articolo di Pasquale Ionata – Cittanuova)