DALLA REALTA’ ALLA METAFORA

La pittura di Arrigo Poz inizia nella seconda metà degli anni quaranta.
Le sue prime opere sono dell’immediato dopoguerra. Nelle campagne, dove I’artista ancora ragazzo andava formandosi rispondendo ai primi impulsi della sua vocazione, i giorni avevano un ritmo arcaico.

Poz cominciò a dipingere per istinto. Si ispirava per i suoi soggetti alle povere cose dell’esperienza quotidiana. Fra le composizioni d’esordio c’è una Natura morta del 1946. Una brocca di terracotta verdeazzurra volumetricamente risentita, ai piedi della quale sembrano schiacciarsi una pera di sbieco, di un verde più leggero, e un grappolo d’uva blu. Il piano bruno e molto pronunciato, lo sfondo si dispiega a taccheggiature azzurre.
Erano utensili e suppellettili di casa i modelli dai quali il ragazzo Poz traeva spunto per una pittura aspra, ruvida, dalle cromie terrose, il segno duro, sbozzato con faticata tenacia, eppure già nitido, sicuro.

Erano voci di un’intimità domestica, frammenti di vita colti con immediatezza prosastica, come nei Girasoli (1947): un vaso con i due grandi fiori, alcuni frutti, un giornale spiegazzato, macchia chiara nell’ombra in cui lievitano colori bassi, un quadro abbozzato sulla parete. Il dipinto, pur nella sua struttura elementare, esce dagli schemi dell’esercitazione accademica; avverti in esso una sensibilità forte intrisa di umori contadini, una densità primitiva di sentimenti. In Paesaggio (1947) la pittura esce all’aria aperta, mantenendo peraltro una gravità massiccia”.

L’opera è articolata per piani netti, con una qual sapienza compositiva. Le case accennano a una fuga prospettica verso sinistra; raccontano la partecipazione diretta dell’artista al piccolo mondo che gli appartiene, un mondo chiuso, appartato, eppur permeato da una qual solennità emotiva. Già in queste prime opere il pittore non si limita a descrivere; esprime un coinvolgimento, dà voce a un “Friuli del silenzio”.

Un altro Paesaggio dello stesso anno, dal “tono” morandiano, sintetizza quasi la sorpresa di chi, errando per la campagna, si trova improvvisamente di fronte a un cascinale intriso di sole, che si eleva misterioso oltre un muretto di cinta, fiancheggiato da pioppi di una agreste monumentalità “mitologica “, sotto un cielo spazzato da nubi ventose. I colori si fanno piu freschi: rossi e terre leggere, variazioni di verdi umidi, celesti e bianchi di primaverile brillantezza.

Il paesaggio, per il giovane Poz, lontano dall’apparire come un Eden perduto o un’ Arcadia di evasione, è il risultato delle sofferte capacità creatrici della persona umana, si avvia a diventare proiezione del suo modo interiore di essere, della sua spiritualità; inizia a collocarsi, insomma, nella dimensione di un paesaggio morale, ammantato da una sacralità “sommessa “.
Il soffermarsi dell’artista su piccoli agglomerati rurali trova uno dei momenti più suggestivi nel Paesaggio del 1950. Tetti, casolari, campanili sono serrati dentro un muro liscio e “anticamente vuoto”, alla Rosai.

I volumi si costruiscono con nettezza di eco ancora novecentiste. Vividi e squillanti colori sotto il cielo turchino definiscono le strutture “cubiche” degli edifici, la cui semplicità approda a un canto festoso. Il cipresso svettante, cui corrisponde dalla parte opposta, piuttosto defilato, un palo dell’energia elettrica, fa da perno alla composizione e la pervade di un’aura di favoloso mistero.

Nel 1950 compare esplicita, nella pittura di Poz, la figura umana, prima solo evocata attraverso gli oggetti d’uso e gli edifici contadini. Lavoro a maglia rappresenta una giovane, stagliata di profilo su un fondo neutro, intenta a sferruzzare. Il tema era piuttosto consueto nella pittura veristica Borghese di fine Ottocento e nel “realismo magico” novecentista.
Poz, tuttavia, non lo propone né come spunto “di colore” né come episodio immerso in un’aura di metafisiche sospensioni. La scelta è per un cromatismo spento, dimesso su passaggi dai verdi ai grigi ai neri, chiuso entro un duro contornato.

A calamitare la visione e il volto della giovane, un volto da idolo arcaico, pensoso e sofferto. La ragazza come una divinità terragna, una mater matuta friulana. Il suo lavoro una preghiera. Si preannuncia, così, il “realismo religioso” di Arrigo Poz. L’essere umano, per l’artista, non è l’eroe assoluto della storia; Conosce l’innocenza, la sofferenza, la sconfitta, la redenzione.
Proprio all’inizio degli anni cinquanta, Poz frequento per un periodo lo studio di Giuseppe Zigaina. Le tematiche portanti del neorealismo friulano – attenzione e sensibilità alle situazioni difficili di braccianti e contadini – le aveva nel sangue.

Egli stesso apparteneva a quel mondo e ne Conosceva in prima persona i sacrifici e la sorda pena. Rispetto al movimento neorealista, peraltro, assunse una posizione appartata, assolutamente originale e tutta personale. Alle tematiche politico-sociali dei neorealisti antepose una tensione spirituale che gli derivava dalla formazione e dalla coscienza cristiane; alla rabbia sostituì la riflessione, il ripiegamento meditativo, la ricerca di un’identità evidenziata dal linguaggio “rustico”.

Le coordinate di Poz non scaturivano dall’espressionismo post cubista, nonostante l’influsso dell’alunnato presso Zigaina; nascevano invece da un umanesimo terragno. I suoi quadri non parlano di uomini sulle barricate, di masse in rivolta. I ragazzi, i cacciatori di rane lungo i fossi, i contadini, le altre figure tracciate con una linea scura, netta, incisiva che ne evidenzia i volumi corposi, sono persone in colloquio prima di tutto con se stesse, come la giovane di Lavoro a maglia, o la Spigolatrice sempre del 1950, consapevoli della precarietà d’una condizione che diviene dolore esistenziale, vissuto senza abbandoni, con fermezza.

Nella Spigolatrice, tuttavia, alla luce bassa e “acida ” della ragazza di Lavoro a maglia si sostituisce uno sfolgorio di ori e di bianchi solari contro il marron carico e “sonoro” della veste. La banda d’ombra che divide a metà il volto sembra preludere a soluzioni cui il pittore sarebbe ritornato, con una scelta stilistica consapevole e coerente, negli anni settanta. Il disegno preparatorio alla tela rivela una grafia sciolta, dinamica, saettante.

E un disegno dal fitto e intrecciato tratteggio “acquafortistico” caratterizza la Fornace (1950), ripresa poi in una tela dai colori puri, chiari, brillanti. Le fangosità volute delle opere precedenti sono come passate attraverso il filtro di una raggiunta e consapevole gioia creativa. Sul cielo lapislazzulo si staglia lo slancio bianco-rosato della ciminiera, “sorretta” da un accavallarsi di tettoie rosse, marron chiaro, argentate.

La testa di Contadino (1951) si imposta con intensità e forza sullo sfondo infuocato. Il volto è scavato, modellato da acuti “tagli ” lineari ed espressive durezze in funzione dello sguardo grave e profondo, incorniciato ed evidenziato dal nero cappello e dal mantello verde che avvolge la figura fino al mento.

Ferri da stiro segna un tributo a modelli guttusiani, ma l’epicità “assoluta ” dell’ oggetto si piega a una colloquialità casalinga.
Rispetto alle Nature morte degli anni quaranta l’artista mostra di aver maturato la concezione della forma e la funzione “strutturale” delle cromie metalliche. La Fabbrica del 1951 è organizzata su una trama di parallele verticali (tubature, caseggiati, ciminiera, alberi) di tinte vivaci.

Al “contadino” Poz, impegnato in un dialogo di amore-sofferenza con la terra, il mondo dell’industria appare come una scenografia rutilante e un po’ fittizia. Quanto più “corporei” e umorali i Girasoli (1952), simili a rotelle fiammeggianti dentro concavità vegetali.
Il Battifalce e il Giornalaio, entrambi del 1952, sono fra le opere che maggiormente richiamano i coevi stilemi di Zigaina. Eppure proprio la contiguità dei temi figurativi e di alcune soluzioni linguistiche, mette in evidenza la profonda diversità della poetica dell’allievo rispetto a quella del maestro. Il Battifalce, seduto, è fermato mentre assesta lo strumento di lavoro.

L’argenteo guizzare della falce chiude orizzontalmente in basso la composizione. Gli corrisponde, in alto, il luccichio arcuato del braccio di fiume che si intravede fra i tronchi degli alberi, sicché alberi, falce, fiume inquadrano la figura del contadino campeggiante al centro, “appoggiato” a uno scorcio di carriola, in rapporto strutturale con gli elementi naturali (il biancore della camicia richiama il luccichio dell’acqua che richiama, a sua volta, lo scintillio della falce). Il contadino diventa, insomma, parte della natura, partecipa del suo respiro, e la natura si umanizza. Nel Giornalaio spira un’aria di emozione fabulatoria. La figura occupa con rilevata tridimensionalità il centro della composizione.

E’ una figura robusta, scolpita dal colore e da un grafismo tagliente. Il richiamo a Zigaina si avverte negli scorci di biciclette con parafanghi e raggi delle ruote balenanti, nei panneggi “scavati” del mantello blu metallico, nello scenario di fabbriche e pali scuriti, nel chiaroscuro “tintorettesco”.
Eppure quel ritratto di uomo impostato con pesantezza “eroica ” nel paesaggio acre di colline e di edifici, il volto misteriosamente ombreggiato dal cappellaccio a larghe falde, vive l’incantamento di un cantastorie di saga rurale.

I giornali, affastellati nel borsone attaccato al manubrio della bicicletta, portano le voci, i drammi, le illusioni di un mondo lontano, sognato o solo immaginato, e l’uomo che li distribuisce e colui che evoca quelle voci, estraendole dal borsone nero simile al cilindro stregato di un mago.
I volumi di case e fabbriche indicano il riferimento a spazi comunitari.

Un’opera nella quale la personalità di Poz si esprime con raggiunta autonomia, senza condizionamenti, e L’ammalato (1952), realizzata in una doppia versione: in disegno e in pittura. Il disegno va oltre la funzione di studio preparatorio. Con una forza espressionista resa piu coinvolgente dalla drammatizzazione della sintassi grafica, racconta la tragedia di un disfacimento; gli occhi cerchiati di nero, che trasformano il volto dell’uomo in quello di un clown del dolore, sembrano guardare al di là della vita, interrogarsi sul “dopo”, come in un’angosciata attesa. Alla dissoluzione fisica fa riscontro una forte tensione spirituale.

Nel dipinto il turgore espressivo del disegno si acquieta in una pacatezza austera. I verdi chiazzati da lampeggianti e riflessi di luce bianca, stralunata, rendono visivamente l’odore” della malattia. Il fluire della giacca e della scura camicia, fino alle nodose rinsecchite mani intrecciate, in cui intravedi le ossa della consunzione, sgorga dal pallore emaciato del volto, dominato dai laghi neri delle occhiaie. La coperta stesa sulle ginocchia e simile a un bacile in cui si raccoglie la sofferenza, vissuta con virile dignità.

Anche il dolore, nei personaggi di Poz, assume una sacrale grandezza. Ritorna, nel disegno Mia madre, il tema del lavoro femminile, solitario.
La figura e campita frontalmente. Lo sguardo abbassato sul cucito indica un qual ripiegamento “liturgico” del personaggio, un raccogliersi in se stesso, nella profondità del suo essere. Il segno, accompagnato dalla risentita ombreggiatura in basso, a sinistra, da consistenza plastica al corpo, culminante nella testa fortemente costruita.

La diresti una statua di divinità che sublima i valori della terra e degli affetti. In questa donna di energia contenuta affiora la grandezza di un nume tutelare, la “Gran Madre” latina, la “Dea Bianca ” dei popoli nordici, ma inserita in un’aura di accettazione cristiana del proprio destino, da affrontare con operante fermezza. Rappresenta quasi l’interpretazione contadina delle Virtù giottesche degli Scrovegni.

La stessa figura ritorna nel dipinto Le cucitrici (1952). E’ in coppia con una giovane, resa di profilo in un interno di cucina. La scena richiama certi riquadri quattrocenteschi, nei quali la religiosità nasce dalla pratica del quotidiano. Le due donne, pur chiuse ognuna in sè, intessono un dialogo tacito di sentimenti, reso con serrata chiarezza dalla trama visiva. Sono contenute, come in una cornice, nell’angolo retto tracciato dal tubo della stufa. A raccordare le due teste un ideale segmento, cui corrisponde, in parallelo, la linea d’unione tra la mano della ragazza che regge il lenzuolo e le mani della madre. Il panneggio del lenzuolo (nel cui biancore pietroso, ombrato da pieghe spigolose, par di avvertire una qualche reminiscenza guttusiana) forma una cascata di luce che scioglie la concentrata uniformità di un “tempo orizzontale” senza incrinature. “Per chi cuci e per che cosa / un lenzuolo? un bianco velo?”: gli interrogativi de La cucitrice nelle pascoliane Myricae si caricano di dialettali ruvide cadenze.

In una posizione di “riposo meditativo” sono ritratti il Contadino e Nonno Morando (1952). Lo sguardo del Contadino, vero spiraglio dell’anima, è percorso da un’ombra dolente. In essa si riflettono ansie, preoccupazioni, radici di amarezza e di energia. L’impronta neorealista si arricchisce di uno scavo nell’interiorità, fuori da ogni enfatizzazione “classica ” . Eppure il personaggio non resta passivo nè si lascia andare alla deriva della rassegnazione; non appartiene, insomma, al popolo dei “sotans”.

Nella sua povertà disarmata esprime una straordinaria dignità di “persona “; rende eloquente una condizione sociale, un tempo duro di incertezze e di attese, qual era il Friuli postbellico delle campagne. Analogo, nell’impostazione, è Nonno Morando, ma fasciato da una luce di tramonto intriso di saggezza antica, colmo di interrogativi esistenziali e di nobile e severa malinconia. Un fanciullo abbandonato al sonno su un prato, inquadrato da tronchi nudi di sterpi, e il soggetto di Riposo sull’erba ( 1954 ). Richiama il Ragazzo disteso dipinto da Afro nel 1936, un quadro che certamente Poz, all’epoca, non conosceva e con il quale è comunque rilevabile una qualche conoscenza compositiva. L’analogia fra le due opere, peraltro, tocca solo alcuni limitati aspetti formali. La loro sostanza è ben diversa. La tela di Afro recupera manieristicamente la memoria della grande pittura rinascimentale per ” . ” . . . . narrare eroicamente un mito georgico denso di classicità, con il colore fervido e incandescente della Scuola romana.

Il ragazzo di Poz piega il neorealismo a un linguaggio asprigno di sorgiva innocenza. C’è, nell’adolescente addormentato sui campi di un verde molle, come un’eco del Pasolini aurorale delle poesie friulane: “La vierta a duar lizera / in tal prat trasparlnt / nenfra il vagu da l’erba / e il clipit dal vint” (“La primavera dorme lieve, suI prato trasparente, fra il vuoto dell’erba e il tepore del vento”). Sullo stesso tema va segnalato un disegno, scorciato drammaticamente in primissimo piano, intessuto da raffinati dinamismi “alessandrini”.

La striscia di cielo rossastro pesa incombente sulla composizione. Il segno guizzante e morbido con cui il giovane supino e raffigurato accanto alla ruota di un erpice trasforma l’immagine in una sorta di evento sacrificale. Un solido ritratto, costruito con raffinate soluzioni, pur nella resa asciutta ed essenziale, e quello di Claudio. La camicia rosso-fiammante, nel contrasto con il bianco della canottiera, fa da fulcro dal quale risalire all’espressione pensosa e sicura del volto. Esprime un’umanità consapevole di se stessa, capace di guardarsi e di guardare con fermezza al mondo. La tela ha un valore anche di documento autobiografico. Sulla parete alIa quale Claudio si appoggia, il pittore ha inserito riconoscibili Paesaggi, un Ritratto, una Natura morta del suo primissimo periodo.

Nella tela lnnamorati Poz cita ancora Zigaina, per modificarne radicalmente contenuti e significato. Le due biciclette assomigliano a quelle dei braccianti del maestro di Cervignano; e tuttavia non alludono a una storia di lavoro e di lotte, bensì a un idillio campestre. Sono le biciclette, appunto, degli innamorati che vivono la loro storia privata in qualche angolo della brughiera. La prima bicicletta, rossa, da donna, sembra abbandonarsi con una qual tenerezza su quella maschile.

Testimoni dell’incontro d’amore narrato per via indiretta, con una soluzione scorciata simile alIa forza di certe intuizioni cinematografiche dell’epoca del “muto”, sono gli scuri cipressi stagliati con imponenza favolosa, densa di mistero, suI cielo tempestoso, e le presenze stregate dei pali della linea elettrica. La pittura di soggetto sacro fiorisce, su queste premesse, con “naturalitità”, senza salti, forzature, brusche inversioni.

Nella Deposizione del 1953 le due Marie ripiegate suI corpo del Cristo morto, che occupa tutto il lato basso del quadro, appartengono alIa generazione delle donne intente al cucito nelle povere stanze di casa; mormorano la loro angoscia per uno strazio subito. II Cristo è la vittima di una quotidianità patita.

tratto dal libro “Poz – Cinquant’anni d’arte – ed. Electa