I domenica d’avvento B (Mc 13,33-37)

 

di p. Ermes Ronchi

Aiutati dalla Parola di Dio che scandisce il nostro pellegrinaggio, siamo qui per caricarci della forza stessa di Dio, per non venir meno lungo la strada.

 

Prima domenica di avvento: oggi è come se fosse il primo dell’anno per i fedeli, perché nel calendario della pietà è oggi che comincia il nuovo anno. Cortissimo avvento, tre settimane solo, Natale è tra 21 Giorni.

Natale, Dio caduto sulla terra come un bacio.

Il ricominciare dell’anno liturgico è come una scossa, un bagliore di speranza dentro il giro lento dei giorni sempre uguali.

Cammino di speranza. Sentite Peguy: è la speranza che commuove anche il padre che sta nei cieli:

La speranza, dice Dio,

ecco quello che mi stupisce.

Questo è stupefacente.

Che quei poveri figli vedano come vanno le cose

e che credano che andrà meglio domattina.

E io stesso ne sono stupito.

E bisogna che la mia grazia

sia in effetti di una forza incredibile.

perché questa piccola speranza,

vacillante al soffio del peccato,

tremante a tutti i venti,

ansiosa al minimo soffio,

sia così invariabile,

si tenga così fedele,

così dritta, così pura;

e invincibile, e immortale,

e impossibile da spegnere;

come questa piccola fiamma del santuario.

Che arde eternamente nella lampada fedele. […]

Quello che mi stupisce, dice Dio,

è la speranza.

Non tanto la fede. Perché la fede è di tutti.

Questa piccola speranza

che ha l’aria di non essere nulla.

Questa bambina speranza.

Immortale.

 

La speranza è la testarda fedeltà all’idea che la mia e la tua strada sono, nonostante tutte le smentite e tutte le macerie, un cammino di salvezza.

Per quattro volte Gesù dice nel vangelo: vegliate, state attenti.

Vegliare non vuol dire state su di notte, vuol dire fare come una madre che veglia sul proprio bambino, come un amico chi sta accanto all’amico malato; o la veglia per qualcuno che ci ha lasciato.

Vegliare vuol dire prendersi cura,

aprire il cuore, contro l’indifferenza, la globalizzazione dell’indifferenza; aprire l’intelligenza contro il sonno della ragione che genera mostri.

Vuol dire farsi una coscienza critica. e tenerla desta. Contro tutti i sonniferi che ci fanno ingoiare i mass media, contro gli ottundimenti della ragione e del cuore che ci propinano.

Vuol dire riflettere, analizzare e capire che cosa succede, dove ci porta questa economia che uccide, e questo consumismo e questo spreco.

Avere la coscienza della condizione in cui viviamo e far fronte,

e cambiare le cose: Vegliate, perché dipende da voi.

Se ti lasci distruggere la coscienza sei vinto.

Ma se non permetti a nessuno di sedurti e di addormentarti

la tua coscienza vale più della forza dell’universo.

Vegliate vuol dire avere occhi attenti, svegli e al tempo stesso sognanti perché: la realtà non è solo questo che si vede, ma il segreto della nostra vita è oltre noi.

E il mondo è molto più bello e più buono di ciò che appare sulle copertine. Noi calpestiamo tesori e non ce ne accorgiamo, camminiamo su gioielli e non ce ne rendiamo conto.

Vegliate, con gli occhi bene aperti. Il vegliare è come un guardare avanti, uno scrutare la notte, uno spiare il lento emergere dell’alba, perché il presente non basta a nessuno.

Vegliate su tutto ciò che nasce, sui primi passi della pace, sul respiro della luce, sui primi vagiti della vita e dei suoi germogli. Il vangelo ci consegna una vocazione al risveglio.

Rischio quotidiano è una vita dormiente, che non sa vedere l’esistenza come una madre in attesa, gravida di Dio, incinta di luce e di futuro. Un cammino di speranza.

Sperare in ebraico si dice qiwwà, da qaw, la corda.

la corda dei muratori, il filo che i costruttori tendono

per alzare i muri della casa, per tracciare le mura della città.

Sperare evoca l’idea di una corda tesa verso, indica il tendere a… l’attendere qualcosa o qualcuno.

Costruzione che si innalza.

La speranza è come una corda tesa,

tra le due sponde di un fiume, o di un fossato,

come un ponte tibetano, è forzare l’aurora, faccio presente il futuro che desidero.

Voglio terminare con una immagine in Isaia, quella dell’argilla. “Tu, Signore, sei un Padre e noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma, tutti noi siamo opera delle tue mani”. Parole che consolano la nostra vita incamminata.

Anche Geremia ha visto questa argilla nelle mani di Dio. Dice: “Sono sceso nella bottega del vasaio ed ecco egli stava lavorando al tornio. Ora se si guastava un vaso che egli stava modellando, come capita con l’argilla in mano al vasaio, egli rifaceva con essa un altro vaso”(Ger 18,3-4). Che bella questa immagine di Dio!

Dio come un artigiano perennemente intento a modellare l’argilla che io sono, attraverso il vigore, la carezza e la pazienza delle sue mani.

E se qualcosa si guasta o si rompe – e quante volte mi è successo, quante volte nella vita – Dio mi riprende in mano, mi rimette sul tornio e mi lavora un’altra volta. Dio non mi butta via, mai! Dio non ha mai buttato via nessuno! La mia argilla va ancora bene, è sempre buona per le mani di Dio.

Le mani di Dio su di me. Questa immagine vorrei portare con me da questa prima domenica d’Avvento, perché mi dà la certezza che il mio vaso gira ancora sul tornio del vasaio e che Qualcuno, giorno per giorno, senza stancarsi, mi dà forma, dà uno scopo, un senso, un compito a questa anfora.

La funzione almeno di accogliere, esultante, il vino buono e l’olio buono della terra; di accogliere le lacrime e l’amore degli uomini. E non sarò mai gettato via.

Ad una condizione, però: che non si indurisca, che io non lasci indurire il cuore. Anzi, il Profeta prega che Dio non lasci indurire il nostro cuore”. “Tocca a te, Signore; noi, da soli, non ce la facciamo”.

La durezza di cuore è il grido di allarme di tutti i Profeti, per ogni tempo. Il cuore senza pietà è la cosa più lontana da Dio. Un cuore di pietra è ciò che spezza l’alleanza con Dio, con i fratelli, la nostra alleanza per la vita.

Un cuore senza compassione: e non capisci più niente della vita e di Dio.

 

 

 

Preghiera

Signore, tu sei nostro Padre e noi siamo argilla

che grida il bisogno di mani che diano forma e scopo,

senso e bellezza alle nostre anfore vuote.

Siamo argilla nelle tue mani.

Tante volte questo vaso si è rotto

eppure mai hai pensato che io non ti servissi più,

non mi hai mai buttato via.

Mi hai ripreso in mano, mi hai rimesso sul tornio,

mi hai fatto nuovo e sento ancora il calore, il vigore,

la carezza delle tue mani.

Fa’ di me quello che vuoi, Signore,

donami la forma che vorrai

e so che sarà più bella di ogni mia speranza.

Fa’ di me quello che vuoi, Signore,

solo non lasciarmi indurire il cuore.

Grazie che ancora hai speranza in me, tua argilla,

speranza tante volte tradita ma ogni volta rinata.

Grazie per avermi tante volte risvegliato l’aurora nel cuore.

Ora sento i tuoi passi, vieni da lontano

Vieni, la casa ti attende, la lampada è accesa.

Vieni, o Figlio di Dio, desto è il cuore. Amen

 

p. Ermes Ronchi