di p. Ermes Ronchi

Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare”, e, salito sulla barca, raccontò di un seminatore uscito a seminare.

Frase già colma di promesse di mietiture, presagio di pane e di fame saziata. Il seminatore uscì e il mondo è già gravido.

Con le sue parabole Gesù fa parlare la vita, dove Dio è di casa.

La storia non racconta di un contadino maldestro, ma della fiducia del Seminatore per eccellenza, colui che altro non sa fare che dare vita. È uno che spera anche nei sassi, un prodigo inguaribile, imprudente e fiducioso. Un sognatore che vede vita e futuro ovunque.

Mentre seminava, una parte cadde sulla strada, e gli uccelli la mangiarono.

Succede quando sono strada, e non mi fermo mai. La parola di Dio chiede sosta, chiede passione: chi corre sempre perde il senso e la fame di infinito che costituiscono la nostra dignità.

Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove la terra era poca. È il mio cuore poco profondo quando non custodisce, non medita. Così fa l’adolescente che è in me, accontentandosi di sensazioni superficiali.

Un’altra parte cadde sui rovi, che crebbero e la soffocarono.

Ecco l’ansia della sicurezza; e poi la spina del quotidiano, la fatica di resistere allo sconforto, la paura della solitudine.

Ma il centro della parabola non sta negli errori, il protagonista è un Dio generoso che non priva nessuno dei suoi doni.

Dio esce a seminare, per me. Per me che sono strada e campo di sassi, groviglio di spine e cuore calpestato, coltivatore di rovi e sterpaglie, di passi perduti come barche disperse.

Ma proprio in virtù di questo (e non nonostante) noi siamo chiamati ad essere contadini della Parola, che non tornerà a Dio senza aver portato frutto (Is 55,11).

Oggi, questa mattina, adesso, egli ancora esce. Ed è grande questo contadino che mi aspetta anche davanti alla porta chiusa, dalla maniglia arrugginita.

Ma lui sa che se vado con lui, domani sarò più vivo. Lui sa che se non vado, spesso è solo perché è ancora buio.

E anch’io so che se per tre volte, come dice la parabola, e per infinite volte, come dice la mia esperienza, non rispondo, fermo il corso del miracolo. Poi accade che una volta vado, con il trenta, il sessanta, il cento per uno.

Se io predicassi del Vangelo ciò che riesco a vivere, non dovrei nemmeno aprire bocca. Ma io non predico questo, tento di dire la potenza della Parola che rovescia le zolle sassose, si cura dei germogli nuovi e si ribella a tutte le sterilità.

Non ho bisogno di raccolti, ma di grandi campi da seminare con lui, e di un cuore non derubato; ho bisogno del Dio seminatore, che le mie aridità non stancano mai. E le strade del mondo potranno ancora fiorire di vita, con una pioggia di semi felici che non andranno perduti.

E allora Dio aspettami! Sto uscendo con te.

 

Avvenire XV A Mt 13,1-9

Egli parlò loro di molte cose con parabole. Le parabole sono uscite così dalla viva voce del Maestro. Ascoltarle è come ascoltare il mormorio della sorgente, il momento iniziale, fresco, sorgivo del Vangelo. Le parabole non sono un ripiego o un’eccezione, ma la punta più alta e geniale, la più rifinita del linguaggio di Gesù. Egli amava il lago, i campi di grano, le distese di spighe e di papaveri, i passeri in volo, il fico. Osservava la vita e nascevano parabole. Prendeva storie di vita e ne faceva storie di Dio, svelava che “in ogni cosa è seminata una sillaba della Parola di Dio” (Laudato si’).

Il seminatore uscì a seminare. Gesù immagina la storia, il creato, il regno come una grande semina: è tutto un seminare, un volare di grano nel vento, nella terra, nel cuore. È tutto un germinare, un accestire, un maturare. Ogni vita è raccontata come un albeggiare continuo, una primavera tenace. Il seminatore uscì, ed il mondo è già gravido.

Ed ecco che il seminatore, che può sembrare sprovveduto perché parte del seme cade su sassi e rovi e strada, è invece colui che abbraccia l’imperfezione del campo del mondo, e nessuno è discriminato, nessuno escluso dalla semina divina. Siamo tutti duri, spinosi, feriti, opachi, eppure la nostra umanità imperfetta è anche una zolla di terra buona, sempre adatta a dare vita ai semi di Dio.

Ci sono nel campo del mondo, e in quello del mio cuore, forze che contrastano la vita e le nascite. La parabola non spiega perché questo accada. E non spiega neppure come strappare infestanti, togliere sassi, cacciare uccelli. Ma ci racconta di un seminatore fiducioso, la cui fiducia alla fine non viene tradita: nel mondo e nel mio cuore sta crescendo grano, sta maturando una profezia di pane e di fame saziata. Lo spiega il verbo più importante della parabola: e diede frutto. Fino al cento per uno. E non è una pia esagerazione. Vai in un campo di frumento e vedi che talvolta da un chicco solo possono accestire diversi steli, ognuno con la sua spiga.

L’etica evangelica non cerca campi perfetti, ma fecondi. Lo sguardo del Signore non si posa sui miei difetti, su sassi o rovi, ma sulla potenza della Parola che rovescia le zolle sassose, si cura dei germogli nuovi e si ribella a tutte le sterilità.

E farà di me terra buona, terra madre, culla accogliente di germi divini.

Gesù racconta la bellezza di un Dio che non viene come mietitore delle nostre poche messi, ma come il seminatore infaticabile delle nostre lande e sterpaglie.

E imparerò da lui a non aver bisogno di raccolti, ma di grandi campi da seminare insieme, e di un cuore non derubato; ho bisogno del Dio seminatore, che le mie aridità non stancano mai.